domenica 21 dicembre 2014

L'astuzia di Nastagio

[Postfazione completa a La città sfinge, Edizioni del Girasole, Ravenna, 2014]

Posta al centro di quel meraviglioso affresco popolare che è il Decameron, la novella di Nastagio degli Onesti spiazza il lettore di Boccaccio come la variazione improvvisa di una sinfonia. Il tono della narrazione non cambia, né muta la straordinaria ricchezza della lingua trecentesca: è qualcosa di più oscuro che disturba la lettura di quelle poche pagine, qualcosa di più arduo da definire.

L'orizzonte narrativo del Decameron è totalmente terreno, immerso nella quotidianità della vita comunale e mercantile dell'Italia medievale. Per la prima volta nella storia della letteratura italiana, l'epos è utilizzato per cantare le esistenze più umili, le miserie e le grandezze dello spirito popolare, la sagacità innata dell'uomo della strada.

Se proprio volessimo utilizzare una categoria filosofica, potremmo dire che il Decameron è un lungo, ineguagliato canto dell'immanenza. Tutte le storie che vi prendono parte sono allo stesso livello del lettore, gli accadono davanti, raccontano episodi nei quali viene negato in partenza lo spazio per qualsivoglia finzione retorica o spirituale. È permesso ridere del sacro, così come è naturale prendersi gioco del profano. La terribile cornice della peste del '48 autorizza il narratore - e di conseguenza, il lettore - a lasciarsi andare alla leggerezza; ci invoglia a buttare alle spalle ogni rispetto timoroso per autorità e divinità, ogni preoccupazione per il buongusto; ci spinge ad accettarci così come siamo, imperfetti, in nome di un profondo e sensuale umanismo. È questo ciò che più amiamo di Boccaccio.

Eppure, la storia di Nastagio degli Onesti sembra sfuggire a questo quadro come un corpo estraneo, come una deviazione non prevista. Unica tra le cento novelle, quella di Nastagio apre una ferita, rompe l'ordine del discorso per riprendere il dialogo interrotto con la trascendenza. Quelli che Nastagio incontra nella pineta di Classe sono indubbiamente degli spettri, delle presenze che non appartengono al nostro tempo.

Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti (terzo episodio), 1483 ca


Nastagio non è vittima di un trucco, come i bigotti cittadini di Treviso giocati dalla malizia di Martellino, che in chiesa si finge guarito per grazia ricevuta; né viene ingannato per doppi fini, come Lisetta da Frate Alberto che, pur di possederla, si finge l'angelo Gabriele. Non si può neppure dire che Nastagio sia un sempliciotto, come i contadini di Certaldo, rimasti a bocca aperta davanti a dei carboni, credendoli le ceneri di San Lorenzo, parola di Frate Cipolla; infine, la caccia infernale che gli si svolge davanti, non è certo frutto di un sogno, come quello che visita Elisabetta da Messina, risolvendo così la sua terribile storia.

È quasi come se la lingua di Boccaccio fosse imbarazzata nel dover affrontare questa variazione inedita, è come se arretrasse davanti all'evidenza: ed è un sintomo significativo il fatto che non compaiano mai, nel corso della novella, termini come "spettro", "fantasma", "larva", e simili. La fanciulla straziata dalle zanne dei cani è semplicemente "una giovane", così come il cavaliere, condannato dal volere divino a darle la caccia, è "un cavaliere", e basta, come per una sorta di ritrosia inconscia nel nominare elementi ultraterreni.

Il tema è talmente insolito per Boccaccio, che addirittura si pasticcia un po' con l'oltretomba: non si capisce se questi spiriti siano dannati per sempre alle pene del "ninferno", o se piuttosto non debbano scontare le loro disgrazie per un periodo di tempo definito ("tanti anni [...] quanti mesi ella fu contro a me crudele", ci rivela lo spettro), come accade di solito ai residenti del Purgatorio.

Insomma, la penna di Boccaccio s'arriccia come i peli del suo Nastagio scrivendo questa storia, vuoi per il contenuto particolarmente macabro, vuoi per l'estraneità degli agenti che intervengono: il punto è che in questa pineta (e sarebbe interessante, anche se fuori luogo, soffermarsi di più sulla qualità "infernale" e oscura del nostro territorio, che ha attratto molti narratori italiani e non, in primis Dante e Boccaccio, ma più recentemente anche Coetzee, solo per fare un esempio), l'orizzonte narrativo si sfonda per un attimo, lascia trapelare qualcosa che non fa parte di questo mondo, ma di una dimensione altra.

Ma è soprattutto lo scioglimento della novella, tanto brusco quanto imprevisto, a destare la perplessità del lettore. In modo assolutamente peculiare, è assistendo all'orrendo spettacolo della morte dello spettro che la giovane Traversari, "sì altiera e disdegnosa" fino a poco tempo fa, muta il suo sentimento verso Nastagio; è il terrore di essere condannata a una fine simile, dantesca nel suo terribile contrappasso, a farle tramutare "l'odio in amore".

Ed avviene così che si sarebbe quasi tentati di provare pena per la sorte di questa coppia di finzione, tra la più giustamente celebri del Decameron, invece di esserne rallegrati, in quanto non occorre essere troppo esperti in materia di affinità elettive per sapere quanto sia improbabile riuscire ad amare qualcuno avendone allo stesso tempo paura.

Da questo paradosso narrativo è nata la mia riflessione sulla novella, la voglia di capirla meglio, di riscriverla, di proseguirne e sabotarne il racconto lasciando che fossero i personaggi stessi a parlare. Ha preso la forma di un testo teatrale - forma che ha ben presto perso i suoi connotati iniziali per mutare in qualcosa di ibrido, a metà strada tra romanzo, dialogo e teatro.

Tuttavia, è stato soltanto scrivendola che ho capito da dove davvero nascesse, al di là di una personalissima insoddisfazione narratologica, la necessità di questo mio esercizio di stile, e quale fosse in realtà il tema portante del lavoro.

Nastagio - e di conseguenza la sua novella - mi affascina per la sua capacità, così rinascimentale, di fare uso del passato. Davanti all'orrore ripetuto, davanti all'iterazione assurda della caccia infernale, Nastagio non rimane alla mercé di un'abulia impaurita e nemmeno volta le spalle, in preda allo spavento; al contrario, prende una decisione e sceglie di usarlo a suo profitto. Nastagio rappresenta l'uomo che riesce a fare uso vantaggioso del passato, che riesce a piegarlo alla sua astuzia senza per questo deformarlo o cancellarne una parte, senza rimanerne schiacciato, senza ripeterlo.

I personaggi di questa storia, ossessionati da un'età dell'oro ormai perduta, immiseriti nel lamento auto-indulgente della desolazione del presente, incapaci di iniziativa e schiacciati da un passato splendido e ingombrante, li ho trovati molto simili a noi, alla nostra città, e in generale al carattere odierno del nostro paese.

Similmente, in ambito letterario, si parla di "fine della storia" e di postmodernismo, di impossibilità di innovazione e di necessità di combinazione, si discute riguardo ai modi per sfuggire a quella che sembra essere una formidabile impasse ideologica, si coniano termini e si ipotizzano nuove scuole. Forse, ad un certo livello inconsapevole e certamente insoddisfacente, la storia che vi trovate per le mani è una risposta a queste tematiche.

Forse, l'astuzia di Nastagio può segnarci una strada.

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