martedì 22 luglio 2014

Es patrìda gaian #2

È poco più che un ragazzo. Guarda davanti a sé con occhi bene aperti, attentissimi. Scruta forse le imperfezioni dell'arena prima della corsa, ma potrebbe anche ammirare il podio, potrebbe, con una punta d'invidia per il vincitore, o con quella calma profonda in cui precipitiamo dopo la vittoria. L'auriga sta per stringere in pugno le redini che si divincolano come serpenti: ma ancora il movimento è ambiguo, impossibile distinguere se di stretta o di resa.

Lo sguardo è fermo, il collo saldo: ma già il bicipite è gravido di una genesi di sforzo. I piedi, realissimi, accidentati, ben fermi a terra: ma già le labbra sembrano dischiudersi nel primo urlo per incitare i cavalli. C'è qualcosa che si agita dentro all'Auriga di Delfi, ma non sappiamo definire cosa. Un'indecisione profonda, uno scontrarsi psichico, camuffato dietro un'apparenza di quiete e contemplazione.



Deve essere questo movimento nascosto che colpisce il visitatore del Museo archeologico di Delfi, arrivato alla fine della visita, quando per la prima volta ammira una delle pochissime statue bronzee sopravvissute del "periodo severo". 

Il viso dell'Auriga non è come gli altri visi delle statue classiche, politi e levigati fino a diventare disumani, androgeni, tutti simili nella loro siderale distanza. Qui tutto è vivo, lo sguardo, i riccioli che escono dalla fascia che gli cinge le tempie, le labbra spesse, così mediterranee, il volto pieno.

Qui, nell'apparente stasi ieratica e severa, tutto si muove, tutto ribolle non visto; non so pensare ad altra miglior rappresentazione dell'auriga del Fedro, che cerca di mantenere l'equilibro dell'anima contrastando le spinte dei cavalli imbizzarriti. Oppure, leggendo la statua in modo opposto, potremmo riconoscere l'ostinazione e l'inquietudine velare gli occhi di Fetonte, un attimo prima di schioccare le redini e volare l'ultimo volo.

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