giovedì 24 ottobre 2013

Il sapere che manipola

[Articolo pubblicato originariamente per Pequodrivista]

Nei filosofi di professione prevale un giudizio per lo più negativo circa la questione della tecnica. Si passa da uno sfumato sospetto ad un atteggiamento scettico, fino ad arrivare spesso a posizioni di aperta ostilità.


Siano essi di scuola heideggeriana o adorniana, seguano il pensiero critico francese o quello cattolico fideista non importa: sembra proprio che, per grande parte della filosofia, la tecnica ponga un problema fastidioso, come una matassa difficile da sbrogliare, che si preferisca accantonare sbrigativamente sotto l'etichetta riduttiva della “volontà di potenza”.


Ho sentito spesso, durante convegni, me ne ricordo uno formidabile di Franco Rella, liquidare la tecnica come fenomeno principe della pericolosa volontà di potenza umana; volontà che va di volta in volta a) negata, b) assecondata seppur con qualche limite etico oppure c) deprecata in modo rassegnato, dato che non è possibile estirparla.

Questo giudizio negativo sulla tecnica e sui suoi prodotti è frutto di una rivalità storica con la scienza che la comunità filosofica coltiva da circa quattro secoli, ovvero da quel momento di crisi collettiva da cui nacque la modernità. È stato infatti nel corso del Seicento che la strada della filosofia e quella della scienza (termine che emergerà solo nell'Ottocento) cominciano a dividersi, prima in modo impercettibile, poi sempre maggiore, condizionando la storia della conoscenza in Occidente.

Ma, a dire il vero, anche molto prima di questo scisma decisivo, la tecnica non godeva di buona fama. Come tutti sanno, il pensiero in età classica doveva esercitarsi nella purezza della teoria. Qualsiasi legame con la pratica, quel filo rosso importantissimo che lega il cervello alla mano, era negato di principio. Il pensiero era considerato autosufficiente: chiedere aiuto alla manipolazione della materia non solo non era consigliabile, ma avrebbe interferito nocivamente sulla riflessione teorica.

Il tecnico era qualcosa a metà tra l'operaio e l'artigiano. Il sapere tecnico era pur sempre un sapere, ma inferiore, poiché faticoso e finalizzato al guadagno. Dice Aristotele, nella Metafisica, che la filosofia è l'episteme per eccellenza, proprio perché libera da qualsiasi preoccupazione pratica.

Fu così, dunque, che la tecnica passò gradualmente sotto l'egida della scienza, che si distanziò dal pensiero speculativo filosofico soprattutto in due caratteristiche: a) l'uso di un linguaggio simbolico altamente specializzato e astrattivo, la matematica e b) la corroborazione delle teorie naturali attraverso il “cimento”, ovvero attraverso esperimenti artificiali.

Fu proprio per la necessità di confrontarsi con la natura che i portatori di un sapere tecnico-meccanico vennero integrati all'interno di una nuova istituzione del sapere, l'accademia scientifica. Si cercò di ovviare ad una duplice mancanza che all'epoca cominciava a farsi problematica: da un lato i professori, i teorici, non sapevano come fare le cose, come usare le mani; dall'altra, le mani dei meccanici avevano bisogno di una guida, di un sapere teorico che le orientasse.

Famose, e in questo caso paradigmatici, le vite dei due grandi sapienti ibridi del Cinquecento: Vesalio l'anatomista da una parte, e Leonardo dall'altra. Entrambi portatori di un sapere tecnico rivoluzionario che faticava ad essere riconosciuto dalle autorità accademiche del tempo.

Illustrazione dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, 1543


Il punto è proprio questo: ciò che ha permesso all'uomo di conoscere il mondo è stato questo intreccio di mano e cervello, di teoria e tecnica. Il filosofo tende a dimenticarsi la seconda, a sminuirla, credendo che la conoscenza sia soprattutto discorso o teoria; spesso però anche lo scienziato, soprattutto il fervente positivista, tende a ridurre la conoscenza a manipolazione della materia e sperimentazione.

Definiamo quindi sapere teorico un sapere che si occupa della manipolazione di idee, seguendo la scuola di Deleuze e Guattari: la filosofia o la scienza teorica come una “fabbrica” di concetti. Viceversa, la tecnica è quel sapere che si occupa della manipolazione della materia orientata a fini molteplici, siano essi artistici (techne era appunto il termine che il mondo greco impiegava per definire le odierne belle arti), ingegneristici (quindi utilitaristici) o scientifici (ovvero finalizzati a corroborare un sapere astratto).

Un esempio interessante di come siano necessarie in campo scientifico-razionale ambedue le componenti, è dato dal processo della recente scoperta del bosone di Higgs, la particella subatomica responsabile del campo di forza quantistico che conferirebbe la massa a tutte le altre particelle della fisica quantistica. Questo bosone è stato prima di tutto ipotizzato attraverso un lavoro puramente teorico, ovviamente basato su dati sperimentali; quindi è intervenuta la tecnica che, dopo lunghe indagini, ha provato l'esistenza materiale di un'idea.

Ora, credo che nella comunità filosofica sia giunto il momento di riconoscere non solo l'importanza della tecnica, ma di fare un passo in avanti. Bisogna capire (e quindi studiare) il fatto che la tecnica sia diventata (o sia sempre stata? bisognerebbe discuterne a lungo) una parte integrante della nostra conoscenza, e che abbia largamente influito sul nostro modo di “essere nel mondo”, per usare un'espressione di Heidegger.

Già qualche movimento in questo senso è stato recentemente fatto da Sloeterdijk, (filosofo già citato in queste "pagine") pur con tutte le difficoltà e le riserve del caso: l'uomo come animale tecnico, animale che si fa razionale anche attraverso l'uso e la manipolazione dell'ambiente che gli sta attorno. Vengono in mente la pagine cinquecentesche di Bruno, il suo elogio della mano; ma si potrebbe anche prendere un'altra strada, seguire il sentiero di un'altra importante scuola del pensiero.

Kant ha imposto in filosofia il termine “trascendentale”. Già nella scolastica medievale, secoli prima, il termine veniva utilizzato in ambito specialistico per indicare quegli aspetti del reale massimamente universali, eterni e immutabili. Tommaso d'Aquino usava il termine “trascendentale” per indicare quegli aspetti comuni a tutti gli enti universali, quegli aspetti che lo stesso Platone, nel Timeo, aveva riunito come parti costitutive dell'anima del mondo del mondo nella triade geniale di Essere, Identico e Diverso.

Con Kant il termine abbandona l'ambito ontologico per entrare in quello gnoseologico. Non interessano più, dunque, le cose del mondo, ma il modo che abbiamo di conoscere le cose del mondo. Non bastano più, semplicemente, le sensazioni che arrivano dall'esterno e un intelletto passivo a categorizzarle, come volevano gli empiristi inglesi; la nostra conoscenza ha una parte attiva, detta appunto trascendentale perché funziona prima di ogni sensazione e a prescindere da esse (come per esempio durante l'intuizione il ruolo che svolgono le funzioni trascendentali dello spazio e del tempo: ogni intuizione avviene in esse ed esse sono trascendentali ad ogni intuizione).

Per usare il lessico kantiano: 

È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. (Critica del Giudizio, capitolo V)

Pur di forzare un po' il pensiero kantiano, anche a costo di far storcere il naso ai puristi, non si potrebbe dire che nel caso della conoscenza scientifica o razionale del mondo, la tecnica sia (o sia diventata) un trascendentale? Si può ragionevolmente affermare infatti, che senza la manipolazione del reale, non solo non è possibile corroborare una qualsiasi teoria scientifica, ma non si potrebbe forse neppure formularne una di senso compiuto.

Ogni teoria scientifica ha l'ambizione di descrivere il funzionamento di un pezzetto di natura. Se non potessimo manipolare, sperimentare concretamente questa natura, non saremmo stati nemmeno capaci di formulare la teoria che pretende di descriverla. In altre parole, la tecnica, il sapere che manipola, è un principio trascendentale della nostra conoscenza del mondo, in particolar modo di quel tipo di conoscenza che si chiama scientifica o razionale, poiché senza di essa non potremmo nemmeno conoscere gli oggetti che intendiamo indagare: essa è una condizione universale a priori per la nostra conoscenza. Sintetizzando un po': possiamo conoscere razionalmente qualcosa solo a condizione di poterla manipolare per vari e differenti fini.

Per tornare al punto di partenza: lungi dall'essere la più pericolosa manifestazione della volontà di potenza dell'uomo, con buona pace sia di Nietzsche che dei suoi detrattori, possiamo definire tecnica quel comportamento o sapere pratico che non si è sviluppato solo storicamente, ma che, in un certo senso, è condizione stessa di un nostro tipo di conoscenza, quello scientifico-razionale: più semplicemente, la tecnica è una funzione trascendentale.

Concludendo: non solo la tecnica è lungi dall'essere pericolosa o nociva per l'uomo: si potrebbe dire che senza tecnica, l'uomo non sarebbe pienamente consapevole di sé e del mondo che lo circonda.

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