martedì 17 settembre 2013

Il castello di Pietra Mora



Nuova poesia dedicata ai ruderi del castello detto di 'Pietra Mora', edificato su di un affioramento roccioso - lo 'Spungone' - che partendo dal torrente Marzeno, nelle prime colline faentine, arriva fino alla frazione di Capocolle, nel comune di Bertinoro (FC). 

Il sito è ricordato anche da Luciano de Nardis in un breve articolo di argomento folkloristico da lui steso per la rivista romagnola La Piê:

"Sotto Monte Sassone, accanto ai ruderi del castello della Pré Mora (Pietra Mora), nel banco dello spungone sullo strapìombo della voragine del rio della Samoggia, fra le colline a monte di Faenza e Castrocaro nella zona di demarcazione dell’antico confine fra la terra del Papa e quella del Granducato, sono scavate le quattro grotte delle fate (chiamate anche busa – buca - e camaraz – cameraccie). Questa pietra era un prodigioso palazzo, nei lontani millenni delle Fate che lo disertarono quando l’uomo non credette più alla poesia, ma vi lasciarono, pegno del ritorno, i loro magici telai d’oro, su cui l’anima tesseva le canzoni che nessuno sa più! E perché l’uomo non ne facesse sua preda, confidarono la guardia dei telai a un biscione che sibila minacce e con un soffio precipita nella voragine le ladre scalate, quando mai tentassero le porte inviolabili."
(L. De Nardis, La Piê, 1925)

Ecco la poesia:





Era pena, l’asse

il sostegno

del monte alle grotte





era la morte della larva –

tenuta dei cocci,

del voto fatuo alla fioritura





erano briciole del corpo

del prode,

       voce selvatica che

       ne sgola i lembi …


E un testo precedente, ispirato alla leggenda della grotta delle fate e già pubblicato su questo blog:


 
Le dame di Monte Sassone


Il tempo sfilacciato di una vita
che nulla può farci l’ago
ha avuto forse pietà di noi
delle case abbandonate quando
il passo del giaguaro
seminava grida pari
al crollo delle terre
sotto il bacio dell’aratro

quando il seme inselvatichiva
e la mala pianta taceva
i segreti andati in fiamme

quando gonfie nubi ferrose
s’alzavano sulle rovine
e custodi di sale ricolme
di bronzi e di giade
lasciavano che il filo delle lame
si dipanasse ai loro piedi  

quando
quando

quando

*

e a fare come il cavaliere,
che all’ago preferì i telai d’oro
delle dame di monte Sassone

– si badi alla luce delle vesti
come un tempio il cui marmo
sia inciso nel fuoco di costellazioni
ma spolpando il frutto della luce
il succo ripugna
come un porcaro
vestito da signore –

e il cui corpo sbriciolato
fu gettato dalla furia del serpente
giù nell’ombra della terra
fino a fare minerale del pensiero,

noi cosa perderemmo
e cosa avremmo al sicuro ora
che il secco si beve tutto
che i lembi del lago hanno branchie
da cui svapora l’oro dei campi?




(la foto qui sotto è di Stefano Ciani)




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