sabato 6 luglio 2013

L'ibridazione delle categorie

La metafisica non è morta, a dispetto di tutte le ingiurie e gli accidenti che le hanno augurato. Non si può fare a meno di usare categorie metafisiche, e questo per una ragione molto semplice: l'uomo è un animale metafisico. Checché ne dicano scientisti, positivisti e scienziati, la metafisica non è il regno dell'errore e della speculazione vuota, né la bestia nera nata dalla soppressione delle regole logiche; più semplicemente essa è la struttura di base che le permette, il “luogo comune” su cui costruire.

Il problema è tale solo se è affrontabile – affrontabile, notare bene, e non risolvibile, e neppure falsificabile – all'interno di categorie metafisiche. Per questo non possiamo fare a meno della metafisica. Per vivere, la metafisica si nutre di opposizioni. Una celebre opposizione del pensiero occidentale descrive un movimento concettuale che ha segnato la nostra storia e la nostra visione delle cose: l'opposizione tra l'ascendere-oltre e il rimanere-dentro.


Si potrebbe riscrivere la storia della filosofia occidentale solamente usando questa categoria metafisica. Azzardando un'ipotesi archeologica, potremmo affermare che, almeno a livello macroscopico, la storia della metafisica moderna è stata caratterizzata dalla guerra (e dalla successiva, precaria vittoria) dell'immanenza sulla trascendenza.

Ci sono state soste, battute d'arresto improvvise, inversioni di tendenza ma, alzando lo sguardo, possiamo seguire il percorso errabondo del pensiero moderno dai suoi primi, timidi tentativi di affrancarsi da una dimensione trascendente sovrana assoluta, passando per le mature dichiarazioni della dignità ontologica del piano immanente, fino agli ultimi formidabili “colpi di martello” dati dall'immanenza vittoriosa contro gli ultimi idoli trascendenti.

Stiamo semplificando molto, ma per mostrare come, senza queste categorie metafisiche, ovvero senza l'appoggio di queste due nozioni, di questi due movimenti antitetici e opposti, non si potrebbe capire appieno la storia del pensiero occidentale.

Nella sua accezione più generale e primitiva, la trascendenza simboleggia un piano ontologico altro dal nostro, posto al di fuori delle nostre possibilità conoscitive. La trascendenza è un salto nel buio, l'evasione dal particolare, slancio poetico e religioso. La trascendenza è un po' la cassaforte concettuale usata da chi ha bisogno di mettere al sicuro principi, ideologie, valori e ideali. Il suo aggettivo è lontano.

Il movimento dell'ascendere-oltre è comune tanto al ricco proprietario impaurito e ossessionato dalla difesa del suo status quo, quanto al mistico poeta alla romantica recherche di un piano di realtà diverso da quello quotidiano. In ogni caso, è proprio quest'ultimo piano ontologico, quello quotidiano, che viene, direttamente o indirettamente spogliato della sua autonomia e, nei casi più estremi, della sua dignità.

Il pensiero immanente è il calco negativo del pensiero trascendente: rimane-dentro le cose, rimane vicino ai sensi, rifiuta ogni volo. Il pensiero immanente è vicino alle cose, pragmatico come il mercante arricchito in cerca di titoli nobiliari; rifiuta ogni spiegazione che lo porti lontano, che non possa controllare in prima persona. È un pensiero sedentario, ma anche rivoluzionario e combattivo.

L'antitesi tra immanenza e trascendenza è irrisolvibile. Non possiamo decidere definitivamente per nessuna delle due. Possiamo farci partigiani di una di esse decidendo in modo quasi religioso quale scegliere; possiamo preferirne una per questioni estetiche, e privilegiare l'altra per considerazioni morali o politiche.

Quello che mi pare più interessante chiedersi è cosa potrebbe accadere a livello metafisico scompaginando queste categorie rigide. Non è domanda da poco conto: sono simili cambiamenti d'accento e di prospettiva a determinare lo stile di pensiero di un'epoca.

Perché non si è mai pensato di ibridare le categorie? Analogamente all'allevatore, che decide quali esemplari far accoppiare in modo da modificare o sviluppare determinati fenotipi, così il filosofo dovrebbe adoperarsi a creare categorie metafisiche che rispondano ai nostri bisogni non solo estetici, ma anche morali ed epistemologici.

Dopo tutto la metafisica è un'invenzione umana, al pari di uno strumento tecnico. E come ogni strumento, la usiamo per orientarci e vivere meglio, per capire come comportarci e, nel migliore dei casi, capire anche il perché di qualcosa. Per questo non dovremmo farci alcun tipo di scrupolo nel modificare, nel de-costruire e nel rimontare, al fine di rendere la metafisica più abitabile. Non dovremmo esitare a ibridare le categorie, poiché è anche e soprattutto attraverso l'incrocio e lo scambio tra concetti (e di concetti) che la storia del pensiero muta e si evolve. Nulla mai deve restare immobile per troppo tempo.

Avremmo così due possibili incroci metafisici: le categorie ibride della inascendenza e della transmanenza, ovvero il pensiero che ascende-dentro e quello che rimane-oltre. Che tipo di effetti potrebbero avere queste categorie? Che tipo di atteggiamento filosofico potrebbe corrispondere a ciascuna?

(Tutto questo è chiaramente un divertissement estivo ma, a pensarci bene, che cosa è più serio del gioco? Nel gioco si possono ancora seguire delle regole, comportamento che non pare più possibile, o terribilmente fuori moda, in molti altri campi d'esistenza.)

Ad una prima, sommaria analisi, il pensiero trans-manente è un pensiero che non mi attira; potrebbe forse assomigliare al pensiero teologico, che appunto rimane-aldilà, lontano da noi, immobile e ieratico.

Un buon candidato sembra essere invece il pensiero in-ascendente, ma quali forme potrebbe mai assumere? Un pensiero che capisca come anche nella prossimità si dia una profondità di movimento? Un pensiero-limite che non accetti più come fermi, dati e scontati il qui e l'ora, ma che affondi, con slancio analogo a quello della trascendenza, dentro il piano ontologico quotidiano?

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