sabato 18 maggio 2013

Teatro delle Albe: una trilogia


A Marco Martinelli e a Ermanna Montanari:
è poco, farò quel che posso

Come si comporta la verità? Svela o ri-vela? Come ci comportiamo di fronte alla verità? Ci scandalizziamo perché finalmente vediamo chiaro, o piuttosto, contemplandola, rischiamo di rimanere abbacinati?

Di solito non si giudica un'opera d'arte secondo le categorie della verità. Arte e verità non abitano lo stesso luogo, e non devono abitarlo: ci insegnano gli antichi che l'arte è rappresentazione, nulla più. Eppure, quando ci troviamo di fronte alle migliori rappresentazioni, spesso capita di venire investiti da una forza che, in un qualche modo, ci cambia, che muta la nostra visione delle cose. A tale categoria di rappresentazioni appartengono i lavori del Teatro delle Albe.


Si è appena conclusa, all'Elfo Puccini di Milano, la trilogia che celebra i trent'anni di attività del gruppo ravennate (1983-2013). La compagnia ha portato in scena alcuni dei suoi lavori più maturi: inaugurati dal loro nuovo lavoro, PANTANI, i festeggiamenti sono proseguiti con Rumore di acque, per chiudersi con il monologo in dialetto romagnolo, Overture Alcina.

Pur nella loro evidente eterogeneità stilistica, e sebbene i temi affrontati siano estremamente distanti tra loro, credo si possa individuare il “luogo comune” dei tre spettacoli proprio nella forza metamorfica che investe gli spettatori, risvegliandoli e allo stesso tempo seducendoli. Cercheremo di chiarire questo punto analizzando i tre momenti in questione.

PANTANI (2012)

Come definire PANTANI? Si tratta di “teatro civile”, impegnato a denunciare l'ennesimo dei tanti, infiniti misteri italiani? Anche, ma non soltanto.

La scrittura del dramma è costata uno sforzo di ricostruzione durato più di due anni e ripercorre con acribia la storia dell'ultimo grande fenomeno mediatico del ciclismo internazionale.

In un primo tempo il testo svela gli interessi politici ed economici che causarono la distruzione di un'esistenza scomoda. Marco Pantani prende le difese dei suoi colleghi sportivi, si schiera, rischia di far saltare l'ingranaggio della corruzione sportiva. Si espone troppo e paga caro le conseguenze. È in questi passaggi di inchiesta e ricostruzione che la prosa di Martinelli ricorda i lavori più impegnati e traumatici di Marco Paolini.

Ma è evidente che non si tratta solo di questo. Il testo di Martinelli parte da Marco Pantani, ma non si può comprendere appieno se non lo si interpreta anche e soprattutto come riflessione sul nostro paese. Pantani diventa un medium che si racconta – pur non comparendo mai sulla scena – e ci racconta.

Dietro Pantani, infatti, sta la “madre sempre incinta dei furbi e dei furbetti”; dietro Pantani sta una nazione istupidita dalla comunicazione mediatica, il cui squallore è ricordato dalla sigla di uno dei programmi simbolo della televisione commerciale italiana, Colpo grosso: “da oggi i sogni non si sognano più | li trovi già pronti, te li dà la tivù”; sta una nazione ipocrita e compiacente con i più forti, sempre pronta a dimenticare ogni complotto, ricoprendolo “con una bella colata di silenzio”. Una nazione, la nostra, ancora barbara a tal punto da riuscire a pulirsi la coscienza con il sacrificio del solito capro espiatorio.

Questa nazione è gli spettatori che assistono al dissolversi della vita di Pantani in coca e prostituzione. Questa nazione è quella che si commuove ascoltando le urla della madre Tonina (Ermanna Montanari) o i ricordi commossi del padre (Luigi Dadina). Questa nazione, purtroppo, sono io che scrivo queste righe.

Ma ecco che il dramma lacera i suoi confini. Non si limita alla denuncia politica (non è un caso che i lavori delle Albe siano stati definiti ironicamente “polittttici”, in quanto superamento del teatro politico) e comincia la ri-velazione.

Attraverso squarci poetici corali accompagnati da cantate in dialetto, Pantani si trasforma sotto i nostri occhi, cresce smisuratamente. Si lascia alle spalle ogni lordura per diventare un poeta maledetto della bicicletta, spirito selvaggio e poetico.

La sua fragilità rabbiosa, che si esprime attraverso le frasi sgrammaticate annotate sul suo passaporto (la cui lettura in scena da parte di Ermanna è senza dubbio l'apice della pièce), è la fragilità di chi, in un certo senso, è diventato prigioniero di sé stesso. L'umiliazione subita, che lo sospinge ogni ora verso la fine inevitabile, proprio come accade agli eroi delle tragedie antiche, porterà alla fatale morte che fin dall'inizio abita la scena.

Andate via! Me l'avete ucciso voi, con le vostre chiacchiere!”, tuona il terribile incipit materno: le chiacchiere sono quelle della gogna mediatica, delle condanne senza appello di un pubblico drogato dalla televisione e dai titoloni della stampa. Le chiacchiere divengono come Erinni antiche per la madre, che non riesce più a scacciarle, che s'addensano “come una nùvla scura in tla testa”.

É questa condanna che illumina le parole e la vita di Marco Pantani di una luce profetica, come se non fosse nemmeno più lui a scriverle, ma qualcos'altro. Entusiasmo, si potrebbe dire alla greca. È insomma un Pantani che, nell'ultimo momento, mi ha ricordato un altro romagnolo maledetto, Dino Campana.

I tratti in comune tra le due figure si sprecherebbero: entrambi condannati ad una solitudine rabbiosa, accomunati dalle origini provinciali e dall'amore per la montagna; entrambi invidiati dalla buona società; compagni di una morte tragica. Ma quello che più conta è la forza di rivelazione che entrambi emanano, causa o effetto di una vita in erosione: vuoi per pazzia, o vuoi per solitudine e overdose. Le poesie di Dino Campana sono sorelle delle scalate di Pantani.

Rumore di acque (2010)

Svelamento e denuncia da una parte; dall'altra rivelazione e seduzione. Lo stesso movimento si può rintracciare anche in Rumore di acque. Cambiano radicalmente toni, scena e tematiche: abbandoniamo le salite, le montagne consumate a forza di agonizzanti pedalate, per approdare su un'isola mediterranea.

È un luogo immaginario, un'isola vulcanica infernale, annebbiata da fumi solforici e rocce piriche: un luogo che potrebbe essere uscito da un mito greco. Tutt'attorno un mare profondissimo e oscuro, pieno di bocche voraci.

Chi ci parla è una figura non identificata, un generale che svolge una funzione tanto orribile quanto essenziale: tenere il conto dei civili africani annegati nel tentativo di raggiungere una ricca Itaca.

Ai fini della sua attività, le migliaia di civili scomparse per sempre nelle acque divengono numeri. Il suo non è un esercizio di pietas, non è un ricordo della dignità degli scomparsi. La sua è spiccia contabilità da burocrate, che non riesce neppure a svolgere il compito assegnatogli da un fantomatico Ministro dell'Inferno. I numeri si confondono davanti ai suoi occhi, non vogliono formare un ordine, non riescono ad appiccicarsi addosso alle migliaia di vite che contrassegnano; e lui sbraita, beve, maledice il suo lavoro e l'isola che lo ospita, insulta i suoi mandanti, che gli lasciano fare “il lavoro sporco”.

È come un Eichmann mediterraneo: meno teutonico e preciso, bestiale, meno costante nel suo lavoro; ma non per questo meno disumano. Egli è capace, in uno scoppio di follia, di ordinare agli squali di “essere più umani”: ovvero di non cancellare per sempre il ricordo delle vittime non ancora schedate. “Siete i porci del mare, maledetti! Non guardate in faccia nessuno”, esplode poco prima del finale.

La maggior parte dei numeri infatti risulterà “non identificata”: migliaia di vite per sempre sommerse in un grande cimitero marino, vorace di carne e di identità. Ma alcune di esse resistono, continuano a significare qualcosa e il generale ne ripercorre le storie assurde. È in questo momento che lo spettatore viene schiacciato dal racconto appassionato eppure distante del generale. Com'è possibile che queste storie, vicine pochi chilometri, queste tragedie quotidiane che si consumano sotto i nostri occhi, rimangano lontanissime, quasi come appartenessero ad un'altra epoca storica?

Così suona la condanna implicita del testo. L'attenzione incostante del generale, il suo sguardo che si perde tra i numeri semi cancellati dalla salsedine sono, ancora una volta, la nostra stessa attenzione, sono i nostri stessi sguardi ondivaghi.

Ed è in questi momenti che il pubblico assiste alla rivelazione, accompagnato dalla musica dei fratelli Mancuso: è come sentire il mediterraneo urlare e piangere con la voce dei due musicisti siciliani, al suono dei loro strumenti tradizionali, delle nenie in dialetto, che tanto mi hanno ricordato le atmosfere di Creuza de mä.

Ed ecco che il barcone disperato, carico di “merce preziosa”, ovvero di giovanissime prostitute nigeriane destinate ad ingrossare le file del mercato europeo, nella finzione teatrale riesce a diventare una barca di splendide ninfe. Si inabissa per sempre, quel barcone di legno marcio: ma le consegna ad un riposo più degno del letto cui erano destinate da vive. “Quelle sono perle, che un tempo erano occhi, e le loro ossa divengono corallo”, suona la magnifica citazione da Shakespeare.

Overture Alcina (2009)

In Overture Alcina il processo di svelamento e rivelazione interessa invece il linguaggio. Siamo qui all'episodio più sperimentale ed estremo della trilogia, che inchioda lo spettatore con la sua forza tellurica.

Ermanna Montanari si scatena in un monologo “smisurato” nell'accezione letterale del termine: non soggetto a misure tradizionali. La protagonista è Alcina, lontana parente romagnola dell'omonima maga dell'Orlando Furioso, che come una Circe ammalia gli sventurati amanti per poi, una volta stanca, trasformarli per sempre in animali.

Nell'opera di Ariosto, Alcina riesce ad ammaliare Ruggiero che però, avvertito del pericolo da Bradamante, riesce a risvegliarsi e a fuggire dall'isola della strega. Alcina cerca con tutti i suoi poteri di trascinarlo indietro a sé, ma non vi riesce proprio perché l'ammaliata questa volta è lei: l'amore per Ruggiero l'ha privata di ogni potere.

Così la nostra Alcina, innamorata di un giovane “furistìr” capitato per caso nel suo sperduto villaggio romagnolo, e fuggito veloce come è arrivato, si ritrova inebetita e “insmida”, instupidita, sola a girovagare nella nebbia, forse fuori di senno.

In mano, al posto del bastone da strega, una calla immacolata; Alcina lancia i suoi strali disperati contro gli uomini, che alla fine fuggono sempre, contro il padre che l'ha abbandonata. Una figura ieratica, che parla una lingua più vicina ai suoni naturali che non a quelli umani.

Il romagnolo di Ermanna si allontana dal testo di Nevio Spadoni, lo piega alle sue esigenze fino a renderlo una lingua dura e incomprensibile, che sembra fatta degli stessi suoni della terra. In questo processo di “naturalizzazione del dialetto” Ermanna è aiutata (o forse, meglio dire sfidata) dalle musiche di Luigi Ceccarelli, campionature di suoni naturali che si scatenano con forza ctonia sul pubblico.

Difficile descrivere a parole ciò che succede sulla scena. Inutile anche solo provarci, poiché sarebbe come sconfessare apertamente l'obiettivo di Ermanna: riuscire a comunicare senza l'uso del linguaggio. Diciamo meglio: riuscire a dimostrare come lo “strumento voce” non abbia bisogno di parole per funzionare, ma di un solo corpo che vibra, comunica e si muove attraverso la voce.



L'Alcina ariostea è disperata, perché, pur desiderando la morte, essendo una fata, ella non può morire. Questi i versi dell'Orlando furioso (canto 10, stanza 56), recitati anche sulla scena:

Morir non puote alcuna fata mai, | fin che 'l sol gira o il ciel non muta stilo. | Se ciò non fosse era il dolore assai | per muover Cloto ad inasparle il filo; | o, qual Didon, finìa col ferro i guai; | o la regina splendida del Nilo | avria imitata con mortifer sonno: | ma le fate morir giamai non ponno.

Quello che ci vuole consegnare la compagnia del Teatro delle Albe con la sua ultima rivelazione, è forse proprio questo: che la fata che non può morire è proprio la voce umana. Anche se privata delle sue parole, abbandonata dal linguaggio, la voce continua, per miracolo o per condanna, a comunicare.

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