lunedì 15 aprile 2013

D'Holbach, l'apostolo della natura. Seconda parte


"Cercando di costruire un sistema filosofico coerente, d'Holbach finisce per intrecciare ateismo e naturalismo, finendo per deformare il secondo, che viene modellato sulla base di esigenze ateistiche e per indebolire il primo, dal momento che la scienza, per sua natura, si evolve e fa mancare il suo appoggio."

Così si concludeva l'intervento precedente, dedicato a mostrare come legando a doppio filo ateismo e naturalismo, si finisca per indebolire il secondo e deformare il primo. Questo, in buona sostanza, l'errore originario del Barone, destinato ad influenzare negativamente la formulazione di un ateismo filosofico maturo.

Occorre ora sviluppare la tesi e indicare quali altri problemi emergano da questo errore; primo tra tutti, il pericolo di un dogmatismo ateo.


Questa deriva dogmatica si può agilmente rintracciare nelle pagine del Sistema della natura, specialmente nella seconda parte dell'opera, quella più militante e aggressiva nei confronti della religione. D'Holbach, con illuminata furia, si scaglia contro il fanatismo e contro le chimere religiose che dappertutto infestano i popoli e infiammano gli animi; denuncia gli orrori commessi in nome di un dio vacuo, ora padre clemente, ora inesorabile vendicatore:

Non è stato, il nome di Dio, il segno delle più tristi follie e degli attentati più orribili? (…) Non fu la divinità in tutti i tempi la causa o il pretesto della violazione più insolente dei diritti dell'umanità? (p. 641)

Con acribia razionalista e col tipico lessico ridondante dell'Illuminismo francese, il Barone definisce la religione “un sistema di condotta inventato dall'immaginazione e dell'ignoranza per rendere favorevoli le potenze sconosciute cui si suppose sottomessa la natura” (p. 377); analogamente, la teologia non è altro che “un ammasso inintelligibile di false ipotesi, di sofismi, di circoli viziosi, di distinzioni futili, di sottigliezze capziose, di argomentazioni di malafede, da cui non possono risultare che puerilità o dispute senza fine.” (p. 659)

Si tratta in fondo della stessa celebre analogia con cui, quattordici anni più tardi, Kant risponderà alla domanda fondamentale “checos'è l'illuminismo?”, ovvero l'uscita dallo stato di minorità che dobbiamo imputare a noi stessi. Da una parte gli uomini maturi, dediti allo studio del naturalismo, dall'altra il popolo addormentato, come nella celebre acquaforte di Goya, il popolo fanciullo che non sa ancora distinguere il sogno dalla razionalità.



Proseguendo nella sua analogia, l'ateo è definito come “un uomo che distrugge chimere dannose al genere umano per riportare gli uomini alla natura, all'esperienza, alla ragione” (p. 605). E lo fa eroicamente, esponendosi a rischi serissimi, attaccato da più parti, perché “al solo nome di ateo” (leggasi “illuminista”):

il superstizioso rabbrividisce, lo stesso deista si mette in apprensione, il prete entra in furore, la tirannide prepara i suoi carnefici, il volgo plaude ai castighi che leggi insensate decretano contro il vero amico del genere umano. (p. 605)

Uno spettro si aggira per l'Europa, insomma; lo spettro del razionalismo ateo e materialista francese. Natura, esperienza, ragione: la tradizione dell'empirismo inglese si incontra qui con un cartesianesimo filtrato dalle nuove sperimentazioni enciclopediste. Sensi e ragione collaborano per arrivare alla comprensione della verità, nella fiducia incrollabile che l'unico male degli uomini sia l'ignoranza, che l'errore sia sempre deprecabile e condannabile e che, con l'aiuto del tempo e degli intellettuali, l'incubo del fanatismo possa essere un giorno definitivamente estirpato.

Al di fuori delle (oggi facilmente criticabili) ingenuità ideologiche e pesantezze stilistiche, bisogna ammettere l'effettivo merito critico e ancor più divulgativo di d'Holbach: raramente si era tentata prima una tale aperta critica nei confronti del potere religioso. Il Barone raggiunge l'apice stilistico e teorico proprio quando, per rispondere alle critiche dei teologi, si fa prendere la mano e dà sfogo ad un realismo cinico che ancora oggi può sorprendere il lettore.

Tale è ad esempio il passaggio, magistrale da tutti i punti di vista, dedicato a confutare la teoria di Locke (espressa nella famosa Lettera sulla tolleranza del 1689) secondo il quale un giuramento civile prestato da un ateo non sarebbe da considerare valido, in quanto privo di qualsivoglia principio morale:

(...) lo spergiuro non è affatto raro anche nelle nazioni più religiose (…) I giuramenti sono dappertutto solo vane formalità, non incutono affatto rispetto agli scellerati e non aggiungono niente agli impegni delle anime oneste (…) (p. 644-645)

Riassumendo: “(...) fu sulle rovine della natura che gli uomini elevarono il colosso immaginario della divinità.” (p. 384) L'ignoranza delle cause genera paura e quindi, per passaggi logici necessari, credulità e fanatismo; il sapere naturalistico, spinge l'uomo privo di pregiudizi verso l'ateismo.

Il Sistema della natura è un tentativo fatto proprio in questa prospettiva: presentare agli uomini un sistema basato sulle leggi naturali, alternativo alle costruzioni immaginarie della religione e delle false filosofie; sistematizzare una dottrina che sia capace di rispondere a qualsiasi domanda, dall'etica alla politica, semplicemente interrogando la natura.

Non esistono altre possibilità, per il nostro Barone, all'infuori di queste due. È qui che prende forma un singolare dogmatismo ateo. Le leggi della natura non si possono infatti ricusare. Il pensatore illuminato è costretto a riconoscere la loro cogenza. Nell'universo deterministico di d'Holbach, o si è con la natura o si è contro di essa. Non c'è possibilità di errore, è vero: l'etica naturalistica è incrollabile proprio per questo motivo. Ma così si è negata di principio ogni possibilità di deviazione, si è estirpato ogni dubbio. Al cospetto della natura non è concessa alcuna critica.

Se con ateo si indica un uomo che nega l'esistenza di una forza inerente alla materia e senza la quale non si può concepire la natura e se è a questa forza motrice che si dà il nome di Dio, non esistono atei e la parola con la quale li si indica designerebbe solo dei folli. (p. 612)

La forza di cui parla è quella forza “animalizzante” su cui ci siamo soffermati nell'intervento precedente; forza insita alla materia che d'Holbach formula per eliminare ogni tentativo di introdurre in scienza l'ipotesi del “motore immobile”. Forza che, intesa come la intendeva il Barone, verrà confutata dalla chimica moderna – che, stando al suo sistema, bisognerebbe liquidare come “scienza folle”.

Il dogmatismo religioso è in d'Holbach tanto alacremente criticato quanto velocemente sostituito da un altro dogmatismo, di ben altra matrice: il dogmatismo naturalista o, per usare una dizione più moderna, da un dogmatismo positivista. O si accetta la verità incrollabile della ricerca scientifica, oppure si è fuori dal gioco, senza possibilità alcuna di dissenso.

Il capitolo più istruttivo a questo riguardo, è l'ultimo, quasi certamente firmato anche da Diderot, stando alla insolita brillantezza stilistica. Si intitola Abregé du code de la nature, ovvero si tratta del codice filosofico ed etico che si può dedurre dalle stessi leggi naturali. Accanto a passaggi eleganti, a tratti addirittura commuoventi, prende forma la nuova religione della natura.

È lei stessa che parla, la grande protagonista dell'opera. Siamo al cospetto della Verità, e come Parmenide non possiamo far altro che accettare la logica stringente della Dea: “Ascoltate dunque la natura: non si contraddice mai!” (p. 665)

Essa ci dice come comportarci; come una madre clemente ci esorta al nostro interesse privato: “Lavorate alla vostra felicità, godete senza paura, siate felici!”; per poi, subito dopo ricordarci che “le leggi dell'uomo sono giuste unicamente in quanto sono conformi alle mie”.

Pensiamo per un attimo alle conseguenze di questo pensiero dal punto di vista evoluzionista, pensiamo ai pericoli di un darwinismo applicato alla morale. Altri passaggi, di indubbia efficacia retorica, sembrano invece quasi evangelici:

Sii giusto, perché l'equità è il sostegno del genere umano. Sii buono, perché la bontà incatena tutti i cuori. Sii indulgente, perché, debole tu stesso, vivi con esseri deboli come te. Sii dolce, perché la dolcezza attira l'affezione. Sii riconoscente, perché la riconoscenza alimenta e nutre la bontà. Sii modesto, perché l'orgoglio ripugna ad essere innamorati di se stessi. Perdona le offese, perché la vendetta rende eterni gli odi. Fa del bene a colui che ti oltraggia, per mostrarti più grande di lui e fartene un amico. Sii moderato, temperato e casto, perché la voluttà, l'intemperanza e gli eccessi distruggeranno il tuo essere e ti renderanno spregevole. (p. 665)

Insomma, questi è la “somma della verità che contiene il codice della natura”, questi sono i “dogmi” che “l'apostolo della natura” può annunciare come il “suo discepolo” (p. 669-670).

Il rovesciamento è completo. Dall'eretico motto “Deus, sive natura” di Spinoza, partito da posizioni religiose, siamo giunti al ben più religioso “Natura, sive deus” di d'Holbach, partito da posizioni atee. Si doveva fondare una dottrina atea, ma si è finito per riproporre una nuova religione.

Le ragioni di questa amara, benché affascinante, conclusione non sono difficili da comprendere. L'ateismo di d'Holbach ha senso solo all'interno di un sistema scientifico assolutamente incrollabile. Senza l'appoggio della natura, l'“ateo naturalistico” non saprebbe più come comportarsi: non ci sarebbe per lui davvero più nessuna morale, nessun principio etico, nessuna certezza. Tutto sarebbe permesso. E questo nichilismo l'illuminista non lo può permettere, come il teologo non può lasciar campo alla logica dell'eretico.

Ogni volta che, per fondare un ateismo filosofico si ripete l'errore di d'Holbach, questo è il rischio a cui ci si espone: diventare più realisti del re. Si rischia, a furia di controbattere agli insopportabili dogmatismi religiosi, ai fanatismi più retrivi e retrogradi, di proporre altri dogmatismi, in apparenza più libertari e tolleranti, ma in sostanza tanto nocivi quanto i primi.

È ora di capire che la scienza, per sua stessa essenza, non dà risposte certe o necessariamente vere. È ora di capire che non abbiamo bisogno di risposte certe, perché la certezza dogmatica è inutile e nociva. È ora di capire che se ad ognuno è possibile la critica, senza creare scandalo o rifiuto unilaterale, a nessuno è lecito imporre a nessuno la propria posizione. Non si tratta di relativismo: si tratta piuttosto di pluralismo.

Di tutto questo, un ateismo filosofico maturo dovrebbe far tesoro, senza perdere in mordente, capacità critica e militanza.

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