giovedì 4 aprile 2013

D'Holbach, l'apostolo della natura. Prima parte


Il caso di d'Holbach è interessante per chiunque si occupi di ateismo e soprattutto di storia dell'ateismo. Non si tratta di studiare il materialismo ormai obsoleto di un grande intellettuale del Settecento, tutt'altro: si tratta di individuare archeologicamente una discendenza più o meno diretta che imparenti il ricco barone franco-tedesco alle più recenti esperienze italiane della UAAR e mostrarne, allo stesso tempo, la sostanziale identità d'impostazione teorica. Si tratta, in ultima analisi, di ripensare daccapo le basi dell'ateismo filosofico.

Capire il pensiero di d'Holbach, isolarne gli errori scientifici più grossolani, esaminare lo sviluppo delle sue posizioni nel corso degli ultimi tre secoli è di fondamentale importanza per comprendere come e perché l'ateismo filosofico abbia finora mancato di una matura elaborazione intellettuale. L'ateismo filosofico ha avuto, bisogna ammetterlo, cattivi padri fondatori.


D'Holbach, tra i pochi candidabili, è uno di questi. Nonostante i grandi meriti personali, storici e divulgativi – le centinaia di voci enciclopediche compilate dal Barone; il sostegno economico ai suoi colleghi francesi e non, primo tra tutti, Diderot; l'inesauribile impegno intellettuale che lo rende un engagé prima del tempo – e nonostante l'ampia popolarità di cui ha potuto godere anche in vita, d'Holbach ha forse più nuociuto che giovato alla causa dell'ateismo filosofico, e per un motivo molto semplice: da un suo pròton pseudos, secondo noi, discende l'errore teorico di buona parte dell'ateismo odierno.

D'Holbach univa ad una preparazione classica formidabile (tra gli altri aveva curato l'opus magnum lucreziano nonché varie opere di Seneca) la curiosità scientifica tipicamente onnivora dell'amatore. Traducendo dal tedesco opere di chimica, metallurgia e mineralogia, aveva acquisito alcune nozioni scientifiche basilari e se ne era servito con successo durante la sua collaborazione all'Encyclopédie.

Il problema è che non riuscì mai a superare questo limite: fu un cultore delle scienze, senza essere scienziato; fu un sostenitore della ricerca scientifica, senza davvero afferrare il significato profondo della parola “ricerca”; in sostanza fu un positivista ingenuo ante litteram, privo di una distanza critica dalle scienze naturali.

Questo fu l'errore di d'Holbach: unire a doppio filo ateismo e scientismo. Certamente, ci stiamo servendo di una categoria concettuale che non esisteva ancora al tempo di d'Holbach (lo scienziato era ancora definito “filosofo naturale”); si può tuttavia tradurre con buona approssimazione la posizione intellettuale che d'Holbach chiama “naturalismo” con l'odierno “scientismo”.

In altre parole, d'Holbach impania il suo pensiero in un paradosso: non sa se fondare il suo ateismo filosofico sul naturalismo o viceversa, se modellare il suo naturalismo in riferimento alle sue concezioni ateistiche. Incapace di sciogliere il nodo, ha finito per indebolire entrambe le colonne portanti del suo Sistema della natura, summa del pensiero filosofico di d'Holbach.

Pubblicato nel 1770 sotto pseudonimo per sfuggire alla solita caccia alle streghe, il libro divenne ben presto “la bibbia del materialismo francese del settecento”, come scrive nell'introduzione il curatore italiano dell'opera di d'Holbach, Antimo Negri. E la chiave per entrare nell'opera è proprio capire che tipo di materialismo propaganda il nostro Barone.

L'opera ha una struttura didascalica. Si parte con la definizione del concetto di “natura”, di “materia”, di “corpo”; si passa ad una trattazione più o meno sommaria dei principali problemi naturalistici dell'epoca; quindi si conclude con l'attacco più diretto e minuzioso possibile alla religione fanatica e alla teologia.

Queste ultime sono le pagine più famose di d'Holbach, quelle che sollevarono l'immancabile polverone tra i credenti e tra i teologi dell'epoca; le prime, invece, vennero presto superate dalla scienza stessa e finirono dimenticate, quando non apertamente ignorate dai lettori. Ancora oggi, e a ragione, si tende a preferire il d'Holbach più militante, quello più zelante nella critica illuminista al fanatismo e alla pericolosità delle chimere religiose, quello insomma più accessibile ed “amabile”, per così dire.

È tuttavia nelle prime pagine che va cercato il tarlo. È nella sua filosofia materialista ed empirista che l'architettura del sistema vacilla e rischia di far crollare il “grande tutto”, per utilizzare un'espressione alla d'Holbach.

Difatti, proprio come un grand tout il Barone intende la natura: un assemblage di più materie diverse tra loro, trasportate in un continuo movimento. Ma quello che a prima vista sembrerebbe un tipico materialismo meccanicista di sapore cartesiano, per il quale la natura si scompone in materia e movimento, si rivela ad uno sguardo più attento essere una riedizione di un ilozoismo ben più antico.

Questa almeno è la tesi di Antimo Negri, che nell'introduzione all'opera argomenta a favore di un materialismo d'holbacchiano, se non proprio di sapore Ottocentesco, quantomeno più avanzato di quello che finora era stato rilevato dai suoi critici (tra gli altri, Goethe, Hegel ed Engels).

Il Barone, infatti, “animalizza” la natura ed è “già abbastanza avanzato verso una concezione organicista e immanentisticamente teleologica del reale”. In altre parole, d'Holbach, influenzato da un retroterra di studi di chimica e mineralogia, prenderebbe in prestito il lessico di quelle discipline (e difatti tornano spesso nell'opera parole come “affinità”, “simpatia”, “attrazione” e “repulsione”, tutte riferite ad una materia tutt'altro che passiva) e modernizza il meccanicismo classico francese. Da una materia totalmente passiva, soggetta ad urti e movimenti estrinseci, d'Holbach passerebbe ad una materia animalisée, fornendole un principio del movimento intrinseco, ad essa connaturato.

Se si ammette tutto questo, sarebbe meglio parlare di un ilozoismo (dal greco “hylé”, materia e “zoè”, vita) di d'Holbach piuttosto che di teleologismo – o, tuttalpiù, di un ilopsichismo. Niente, nel Sistema della natura, ci fa pensare ad una causa finale, né tanto meno ad una sorta di entelechia o volontà interna alla materia che la farebbe agire in un modo piuttosto che in un altro.

Allo stesso modo, non si possono accettare le conclusioni di Negri, per il quale d'Holbach rappresenterebbe una sorta di antecedente sotto mentite spoglie dell'ultimo Kant, quello della Critica del Giudizio, proprio riguardo al tema della teleologia. Non solo in d'Holbach siamo lungi dal naturalismo vitalista tipico della scienza romantica tedesca, ma anche Kant è ben lungi da ammettere l'esistenza di una causa finale in seno alla natura: proprio Kant, il primo ad ipotizzare la nascita del tutto “meccanica” della nostra galassia! Il giudizio teleologico rimante per Kant sempre e solo un principio euristico: tanto indimostrabile empiricamente quanto utile alla spiegazione scientifica.

Tutto, per d'Holbach, avviene necessariamente, l'universo è una “infinita catena di cause ed effetti”; il libero arbitrio dell'uomo è una nostra invenzione; niente nella natura avviene per uno scopo così come niente avviene a nostro vantaggio. Questo Negri sembra dimenticarlo. Anche il principio del movimento interno alla materia è soggetto alle ferree leggi della natura. Ed è proprio qui, nel determinismo del Barone, che echeggia le lezione di uno dei suoi maestri, Spinoza – del quale, in certi passaggi dell'opera, sembra di leggere una ripetizione pedissequa.

Ma basta l'ipotesi di un'influenza della chimica settecentesca pre-lavoiseriana sul nostro Barone per spiegare la sua introduzione (sarebbe meglio dire, reintroduzione) del “movimento intrinseco”? Noi crediamo piuttosto che sia stata una necessità di ordine ateistico a costringere il Barone verso l'ipotesi di una “materia animata”, contenente in se stessa il principio del suo movimento.

La necessità è chiara: evitare l'ipotesi teologica, già aristotelica, del “motore immobile”. I meccanicisti più rigidi, che consideravano la materia come pura estensione, dovevano ancora spiegare le cause del movimento, l'origine degli urti e dell'evidente turbolenza della materia così come la possiamo percepire. Da qui ad ipotizzare un motore immobile come principio divino del movimento, il passo era brevissimo.

Per questo D'Holbach, al fine di evitare ogni teologismo, ripiega su un principio di movimento non meglio definito. È interessante notare come, per rafforzare la sua ipotesi, il Barone riporti in nota un esperimento allora piuttosto famoso di un biologo inglese, nonché prete cattolico (!), tale John Needham, il quale sosteneva l'ipotesi della “generazione spontanea” della vita – poi confutata dal nostro Spallanzani nel 1765.

Ecco come, al fine di costruire un sistema filosofico coerente, d'Holbach finisce per intrecciare ateismo e naturalismo, finendo per deformare il secondo, che viene modellato sulla base di esigenze ateistiche e per indebolire il primo, dal momento che la scienza, per sua natura, si evolve e fa mancare il suo appoggio.

Anche le brillanti pagine della seconda parte dell'opera, di cui abbiamo già parlato più sopra, perdono la loro base teorica una volta private del sostegno della scienza. Ogni denuncia del fanatismo religioso, ogni accusa contro le sottigliezze teologiche, ogni critica dell'infelicità e della pericolosità del credente è accompagnata sempre da un rispettivo elogio alla chiarezza della natura, alle sue leggi ferree e necessarie, che assicurano all'ateo naturalista il possesso della ragione e dell'equilibrio morale.

Contro ogni dubbio, il lettore è rimandato allo studio della natura. Per contrastare ogni puerile entusiasmo religioso, per scacciare ogni chimera teologica, la risposta è sempre quella: torna alla natura! Ad ogni dilemma morale, ci viene consigliato l'ascolto delle leggi naturali, che non possono sbagliare. Per lenire le nostre sofferenze, d'Holbach ci consiglia di rassegnarci e farci consolare dalle braccia di madre (ancora deve diventar matrigna) Natura.

Venuto a mancare l'appoggio della concezione naturalistica classica, dell'uniformità e del determinismo naturale; confutata la generazione spontanea e con essa la possibilità di un movimento intrinseco della materia, la critica di d'Holbach, pur non perdendo il suo mordente – alcuni passaggi sono ancora di una modernità disarmante – ha perso sostanzialmente di senso. Così oggi, ogni volta che si cerca di fondare l'ateismo filosofico sulla ricerca scientifica, sul positivismo ingenuo o, ancor peggio, sullo scientismo, si rischia di minare la propria posizione, e di nuocere alla causa atea.

Da questo errore derivano non poche conseguenze teoriche. Prima tra tutte, il rischio di un dogmatismo scientista che ancora oggi infetta l'elaborazione di un ateismo filosofico maturo (conseguenza questa, che esamineremo in un successivo intervento).

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