sabato 25 febbraio 2012

Qualche pensiero sul postmodernismo. Parte seconda.



Abbiamo analizzato il pensiero di Simon Reynolds riguardo alla retromania, idea che interessa il campo della musica popolare quanto quello della moda e dell'arte contemporanea.

La paralisi creativa che investe questi campi sarebbe misurabile dall'emergere di nuovi fenomeni quali revival e stili musicali sincretisti o “archivistici”; paralisi in parte originata dalla rivoluzionaria pervasività della documentazione digitale.




Reynolds, secondo noi, non fa che interpretare meglio, e dal suo personale punto di vista, il problema centrale della teoria artistica degli ultimi 20 anni: il postmodernismo. Partendo da una lettura “temporale” del fenomeno (il passato che non passa mai, oltre al più convenzionale tema del “gioco stilistico” che da necessario si fa velleitario e citazionista), finisce per condannare le produzioni degli ultimi dieci anni di musica pop. L'unica vera rivoluzione sarebbe quindi tecnologica (modo di fruizione della musica; archivi di memoria collettiva illimitati; bulimia da download) piuttosto che sostanziale.

Il punto debole dell'argomentazione di Reynolds si palesa in un altro passaggio. È quando il suo stile da descrittivo vuole farsi normativo, è quando cerca di proporre in positivo una sua teoria dell'arte, che emergono rilevanti difficoltà concettuali.

Reynolds, con una punta d'ironia, confessa di essere un futuromane, di avere abbracciato “la fede nel cambiamento costante e nell'innovazione infinita”; enuncia senza problemi il “credo del modernismo”:


(...) l'arte dev'essere sempre proiettata verso nuovi territori, reagendo ai predecessori immediati con violenti gesti di rottura e sganciando gli stadi superati come un razzo che sfreccia nello spazio.” [Retromania, ISBN edizioni, 2011, pp. 408-409]


Da queste “inclinazioni personali” discende ordinatamente l'intera argomentazione del volume. L'arte degli Anni Zero è “piattume”, proprio perché ha abbandonato questa spinta viscerale verso il nuovo, questa indefessa ricerca dell'originalità, la voglia di rottura e provocazione.

Ecco, noi sosteniamo invece che, storicamente, è stato proprio questo modernismo oltranzista a provocare nell'arte la grande crisi (se davvero esistesse crisi nell'arte e non, con più sobrietà, cambiamento) del postmodernismo. Non un riflusso, quindi, né una paralisi; ma la diretta conseguenza dell'accettazione acritica di un paradigma, quello dell'innovazione infinita, ingannevole e contraddittorio in sé.

L'arte non nasce nella storia per stupire, né per meravigliare, né per provocare. O meglio, non nasce unicamente con questi intenti, né sono queste le direttive del suo sviluppo. L'arte nasce come imitazione (mìmesis, termine-universo difficile per noi da maneggiare) di qualcosa, in prima istanza. Parimenti, l'artista non è il grande provocatore, l'innovatore creatore assoluto: l'artista è semplicemente (e più modestamente) il detentore di un sapere pratico, regolato da regole precise, più vicino alla tecnica (techne) che all'arte come oggi la intendiamo.

Nell'arte intesa classicamente non c'è spazio per l'individualità; non esiste neppure il concetto di creazione artistica. L'artista segue un canone, più o meno liberamente. Ed è proprio la capacità di riprodurre questo canone che lo rende artista.  

Questo è stato il paradigma artistico dominante (anche se non il solo) della storia estetica Occidentale. Una prima manifesta incrinatura di questa convinzione (già da tempo, tuttavia, latente nella teoria estetica europea) si ha con la Critica del Giudizio di Kant. Siamo alle soglie dell'Ottocento, più precisamente nel 1790. Da allora la Grande Teoria della mimesis (usiamo in questa ricostruzione sommaria e manchevole, il lessico e l'argomentazione di Tatarkiewicz) cominciò a perdere gradatamente d'attualità a favore dell'estetica dei romantici.

Aumentò al contrario e in modo inaudito l'importanza dell'individualità dell'artista, della sua creatività; il pubblico cominciò a cercare ciò che più colpiva i suoi sensi, ciò che deviava dalla regola: in una parola, l'originalità creativa. Questo è ciò che si usa intendere con il nome modernismo.

Il più importante storico dell'estetica del Novecento, W. Tatarkiewicz, mostra con grande chiarezza concettuale lo svolgersi del paradigma che ha finito per imporsi (notare bene, l'estetologo polacco scrive negli anni Sessanta, ovvero all'apice della presunta ondata di creatività artistica dovuta al modernismo) come regola estetica, modificando il gusto del fruitore e, soprattutto, le idee dell'artista.

Tatarkiewicz parla di una prima fase di questo cambiamento epocale, descrivendo un'avanguardia maledetta che rompe con i canoni accettati, con l'accademismo, un'avanguardia che emerge dapprima nel campo delle lettere, in particolar modo nella lirica francese, per poi contagiare anche le arti figurative. In questa fase, l'avanguardia non è accettata dal pubblico, e i suoi protagonisti, isolati innovatori, non godono di particolare stima né fortuna. Maledetti, appunto, reietti e incompresi.

Questa avanguardia finisce per persuadere i primi critici d'arte, incontra i gusti del pubblico grazie alle grandi personalità e all'effettivo valore degli artisti, prende coscienza di sé e comincia a organizzarsi in movimenti, ben caratterizzati da manifesti e riconoscibili: è la fase dell'avanguardia militante. Futuristi, cubisti, surrealisti, dadaisti, astrattisti, suprematisti, formalisti: impossibile ricordare tutti i movimenti. È la grande fase della sperimentazione artistica, in tutti i suoi campi. Il successo s'accorda alla spregiudicatezza dei suoi protagonisti.

Ed eccoci arrivati al paradosso: il paradigma modernista ha a tal punto affascinato il pubblico e gode di tale successo economico, che l'eccezione diventa la regola. È l'avanguardia vittoriosa, per la quale non c'è arte che non provochi, non c'è artista che non sperimenti. In un certo senso, l'arte si appiattisce a "originalità per l'originalità". Con Dubuffet, uno dei migliori esponenti di questa nuova età dell'arte, possiamo dire che 


(...) l'essenza dell'arte è la novità. L'unico sistema favorevole all'arte è la rivoluzione permanente.” [Cit. in Tatarkiewicz, Storia di sei idee]


Rivoluzione permanente, rivoluzione istituzionalizzata – infine non-rivoluzione.

Il riassunto che ho dato qui sopra delle riflessioni di Tatarkiewicz potrà sembrare eccessivamente riduttivo: lo è. Ma adesso, forse, facendo un passo in avanti, possiamo tentare di capire meglio il contesto storico-artistico dal quale è nato il concetto di postmodernismo.

Il postmodernismo è l'implosione necessaria generata dall'inganno retorico delle avanguardie. La corsa al nuovo era destinata a finire nella ripetizione; la ricerca della provocazione, alla vuota parodia di se stessa. L'avanguardia diventa impossibile, si trasforma in pensiero-limite. Esaurite le possibilità di stravolgimenti formali pianificati, si è passati a combinare elementi del passato (miniera inesauribile di materiale artistico), in modi nuovi – ovvero creando rivoluzioni "ipotetiche": è il pastiche, la ricombinazione, il vacuo esercizio di stile.

Ciò che Lyotard sostiene ne La condizione postmoderna (1979) – registrando la perdita di una legittimazione classica del sapere scientifico (filosofia) a vantaggio del criterio di performatività (incremento della produttività e dell'efficienza), e riducendo il discorso scientifico a gioco linguistico – può essere feracemente “deturnato” al mondo artistico come segue: “postmoderna è l'incredulità nei confronti dell'avanguardia”. Il cerchio è chiuso: dall'avanguardia alla retroguardia, sempre per amore dell'innovazione infinita.

Ma l'idea, anzi, il postulato, di un'innovazione infinità è errato. Non semplicemente utopico, normativo o bello: errato. Innovazione, in arte, è un termine che non ha alcun significato. Ex nihilo, nihil: questo principio occorre tenerlo saldo anche in estetica.

Niente nasce dal niente: ogni sforzo di apparire innovatori rivoluzionari è destinato al fallimento (teorico, non pratico – di cialtroni è zeppo il mondo dell'arte), in quanto ogni artista porta in sé una Tradizione, spesso inconsapevolmente, della quale non solo non è desiderabile disfarsi, ma la cui mancanza, se per assurdo fosse possibile eliminarla, pregiudicherebbe alla base ogni possibilità futura di creazione, condannandoci al mutismo.

[Avevamo già parlato di questo aspetto tempo fa, descrivendo un'epoché di questa Tradizione: una messa tra parentesi che non significava rifiuto o rottura, ma serviva ad evitare un altro mutismo, speculare a quello già menzionato, derivante dal soffocamento della Tradizione, dall'immobilismo forzato dalla reverenza piuttosto che dall'ignoranza. Ma ciò non è importante.]

Il modernismo, così come il postmodernismo, sono paradigmi (utilizzo il lessico kuhniano perché più conosciuto, ma potrei benissimo impiegare anche il termine di Fleck, Denkstil, stile di pensiero - in questo caso è la filosofia della scienza a fornirci gli strumenti concettuali adeguati a una critica estetica), paradigmi che traggono ragion d'essere da un'altra convinzione collettiva: che l'arte sia essenzialmente “innovazione”, “creazione individuale”.

Il primo ambisce ad ottenerla, il secondo dispera poiché non vi riesce; il primo è utopia lanciata al futuro, il secondo distopia riavvolta nel passato: da qui l'”impegno stilistico” del modernismo, la fiducia nel cambiamento propria di questo stile di pensiero; e l'ironia rinunciataria, il distacco, il giochi disinteressati e cinici del postmodernismo.

Tolta questa convinzione, sfatata la favola dell'innovazione e della creatività, entrambi i paradigmi si risolvono definitivamente in non-senso. Si rivela infine la loro vera natura: pure etichette, espressioni vuote poiché troppo indefinite, che non significano nulla e che non riescono a contenere la complessità del reale.

2 commenti:

  1. Discorso molto interessante. Mi domando (e domando all'autore) in che modo si possa applicare al fenomeno steampunk...

    Angry Saint

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Domanda molto interessante. Per iniziare citerei dall'urban dictionary: "Steampunk is a subgenre of speculative fiction, usually set in an anachronistic Victorian or quasi-Victorian alternate history setting. It could be described by the slogan 'What the past would look like if the future had happened sooner.' It includes fiction with science fiction, fantasy or horror themes."

      Ora invece mi metto nei panni di Reynolds e improvviso una critica al fenomeno steampunk. Mi sembra infatti che si possa considerare come la quintessenza del pastiche e del postmodernismo.

      In primo luogo si tratta di ibridazione dei generi, fenomeno tipico del postmoderno (romanzo storico, distopia, ucronia, cyberpunk); ma credo che sia ancora più interessante interpretare lo steampunk come la riprova del fatto che non riusciamo più a immaginarci un futuro, se non relegandolo nel passato.

      Costruisco una tipica frase Reynolds-Adorniana: "Lo steampunk è la retromania arrivata al suo culmine, ovvero è il pensiero postmodernista che rinuncia alla riflessione sul futuro in sé e per sé, preferendo trasportarlo nel più tranquillizzante e domestico passato. È la paura del futuro arrivata al suo compimento: lo si neutralizza portandolo indietro".

      Ora, al di là di queste formulazioni, poco riuscite, devo confessare di non essere uno specialista del campo, e di non avere mai letto libri steampunk. Mi sembra però interessante usare gli strumenti di Reynolds in questo modo critico.

      Spero di essere stato chiaro, e grazie ancora per l'interferenza.

      Elimina