domenica 11 settembre 2011

Italianità. Una riflessione


Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.”

Giorgio Gaber


Non mi ricordo con precisione chi – forse Corrado Augias – né quale occasione ha dato origine a questo discorso, ma la sua sostanza m'è rimasta bene in mente e riecheggia ogni volta che rifletto sul significato di questi 150 anni dall'unità d'Italia.


Rispetto agli altri anniversari dell'Unità della nostra nazione, quello del 1911 e quello del '61, il nostro avviene nel periodo storico di gran lunga più squallido e meno felice.”


Il discorso continuava facendo paragoni: da una parte la belle époque spensierata e ancora lontana dalle atrocità dei conflitti, una classe politica solida, conquiste coloniali alle porte, avanguardie letterarie musicali e artistiche riconosciute in tutto il mondo; dall'altra il boom economico, un paese che rinasce e che si sente finalmente competitivo, nel pieno delle sue possibilità, prodotti italiani che fanno la storia del design, la dolce vita, l'autostrada del Sole, il miracolo.

E oggi? Frammentazione politica e crisi economica, la classe dirigente più squallida e corrotta della nostra storia, sfiducia nelle istituzioni, studenti in fuga, un paese ignorante e arretrato, fermo, artisticamente e tecnologicamente, da vent'anni. Altroché magnifiche sorti e progressive.

[Sto semplificando, ovviamente. Non c'è mai stata un'età dell'oro, né mai ci sarà.]

C'è chi ha voluto festeggiare ugualmente il centocinquantenario, dimenticando quella che a un'analisi più approfondita spesso si rivela retorica o falso patriottismo, e appendendo il tricolore alle finestre come per convincersi che, nonostante tutto, si può almeno sperare in una rinascita collettiva.

Pensiamo al successo che hanno avuto quest'anno le svariate pubblicazioni, narrative e non, riguardo a questo tema. Libri neo-epici sul Risorgimento, sceneggiati televisivi, conferenze; purtroppo gli sforzi per avvicinare il grande pubblico alla storia dell'Unità non hanno potuto sollevare la cortina di vecchiezza e distanza che li separa da noi. La storia dell'Unità d'Italia, oltre ad essere per molti aspetti controversa e critica, rimane per di più lontana, polverosa – argomento scolastico che non infiamma animi né coscienze.

Credo che occorra riflettere in modo più approfondito sulla nostra italianità, sul suo significato e sulle sue caratteristiche. Commemorazioni e mattoni storici non possono aiutarci molto in questa direzione, proprio oggi che quasi un terzo degli italiani ha deciso di “far parte per sé stessi”, almeno spiritualmente; e per quanto disgusto possiamo provare verso certe retoriche campanilistiche e bigotte, dobbiamo prendere atto di questa l'anomalia italiana. Nessun altro paese europeo ha attraversato una crisi così profonda, una revisione e un rifiuto così esacerbati della propria genesi.

Esiste qualcosa in grado di unire questo paese? La domanda, posta in questi termini, è difficile da affrontare: cerchiamo un sentimento, un oggetto, una storia, una lingua? E, una volta determinato, come spiegare razionalmente questo potere coesivo?

Un tentativo interessante, ma parziale, l'ho trovato in un libro, Italianità a cura di Giulio Iacchetti. Si tratta di un nostalgico elenco di oggetti o simboli italiani che hanno segnato la nostra coscienza e il nostro modo di vivere, e che in un qualche modo uniscono questo paese. Il gusto e l'ironia con le quali sono stati selezionati e descritti aggiunge valore alla pubblicazione, già di per sé graficamente ineccepibile.

La Moka Bialetti, il cane a sei zampe dell'Agip, l'Apecar e la Vespa, la Graziella, la Settimana Enigmistica, la Festa dell'Unità, la T dei tabacchi, le case cantoniere, solo per citarne alcuni; sono elementi che effettivamente si possono ritrovare in tutta Italia e che definiscono il nostro immaginario anche nei paesi esteri.

Certo, il libro non ha nessun intento teorico: non si tratta di fondare la coesione nazionale basandosi su degli oggetti, sarebbe impossibile. Non è questo ciò che mi turba. Si può al massimo sollevare qualche dubbio sul fatto che gli oggetti selezionati appartengono alla storia di determinate generazioni, indicativamente quelle nate e cresciute durante il miracolo dei Sessanta, ma sarebbero considerazioni oziose.

Ciò che è davvero indicativo di un'anomalia italiana è mostrato semplicemente dall'esistenza di una pubblicazione di questo genere: quale altro paese al mondo sentirebbe la necessità di ricercare la propria coscienza collettiva in una serie di oggetti o marche famosi in tutto il mondo? Il sentimento di perdita, di frammentazione si può dedurre dalla nostalgia con la quale gli oggetti sono descritti, dei racconti bei tempi andati, della fiabesca infanzia nazionale interrotta dal disagio di un oggi che non riusciamo ancora ad accettare.

Disagio che viene colto anche da Roberto Esposito, nel suo recentissimo Pensiero vivente, edito da Einaudi, ma che, nella profondità teorica delle sue pagine, viene rovesciato in un possibile punto di forza.

Esposito cerca di tracciare un itinerario comune unendo varie figure del panorama intellettuale italiano, partendo indicativamente dall'esperienza dell'Umanesimo fino ad arrivare alle più recenti elaborazioni filosofico-politiche nate dalla riflessione sul biopotere inaugurata da Foucault.

Si tratta di mettere assieme i pezzi della storia del pensiero italiano in un quadro teoretico sistematico e strutturato, che metta in evidenza le particolarità legate al nostro territorio – spesso nel libro si parla di geofilosofia – i punti di forza e gli eventuali limiti di una filosofia, quella italiana, che sembra oggi avere una grande fortuna, soprattutto all'estero.

Innanzitutto: è possibile assegnare alla filosofia limiti territoriali? Come può un pensiero avere dei confini? Esposito scrive che: 


(...) pare innegabile una qualche connessione tra filosofia e territorio, intendo per quest'ultimo non tanto uno spazio geograficamente determinato (…) ma piuttosto un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche e tonali, che rimandano a una modalità specifica e inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero.” [pag. 14]


L'operazione davvero interessante di Esposito sta nel rilevare proprio nell'anomalia italiana, nella frammentazione politica, nel conflitto sociale, nel senso di non-appartenza, il punto di forza della nostra filosofia, ciò che la distingue dalle altre correnti europee forse più strutturate e solide, ma incapaci di dare una chiave di lettura ontologicamente forte in un momento di crisi globale.


(...) il carattere più intensamente geofilosofico della cultura italiana sta in una terra che non coincide con la nazione e che anzi si costituisce, per una lunghissima fase, nella sua assenza. (…) Essa [la filosofia italiana] nasce in una situazione di decentramento e di frammentazione politica ben lontana dalla realtà (…) dell'unificazione. [pag. 20]


In definitiva, seguendo la tesi di Esposito, è proprio la mancanza di uno Stato forte ad avere segnato, e nel bene e nel male, il pensiero italiano, marcando, allo stesso tempo, la distanza rispetto alla filosofia europea della modernità.

Laddove la riflessione filosofica europea, dopo avere troncato i legami con la sua origine profonda, radicata nella vita, si attorcigliava su se stessa alla ricerca di un fondamento ontologico dell'individuo, dello Stato, della religione, in Italia i pensatori accettavano la caoticità dell'esistente, stringevano sempre più i legami con la vita, sporcando, per dirla con Bodei, il pensiero teoretico, forzandone i limiti, costringendolo a utilizzare un lessico non esclusivo ma di volta in volta frammisto di poeticità, storia, politica.

Da qui le caratteristiche peculiari del pensiero italiano, sintetizzate da Esposito in quattro paradigmi che si rincorrono per tutto il libro, fornendo le chiavi di lettura privilegiate per i pensatori analizzati: l'attualità dell'originario, ovvero la vicinanza della filosofia italiana alla sua origine, alla vita, ai corpi; l'immanentizzazione dell'antagonismo, ovvero l'apertura al conflitto, alla caoticità, esemplificata dal realismo politico di Machiavelli, il primo a intuire l'ordine e la necessità del conflitto politico; la storicizzazione del non storico, ovvero la dialettica tra origine della storia e la storia stessa, storico e a-storico, colta dall'opera di Vico, secondo il quale l'origine animale dell'uomo non può venire cancellata dalla storia, ma è destinata a riemergere in modo catastrofico, secondo la sua teoria dei “ricorsi”; infine, la mondanizzazione del soggetto, ovvero una filosofia dell'impersonale, slegata dal concetto di individuo, che viene concepito come prodotto di una communitas civile, paradigma inaugurato dal pensiero di Bruno.

Questo volendo semplificare. In realtà il discorso è molto più articolato, attraversa svariati autori, alcuni poco conosciuti (Spaventa, Cuoco, De Sanctis), altri invece protagonisti della nostra storia civile, oltre che filosofica (Gentile, Croce, Gramsci, Pasolini), arrivando fino ai giorni nostri (Vattimo, Cacciari e Agamben su tutti).

Benché ci siano da rilevare alcune criticità (ad esempio, gli ultimi capitoli paiono meno curati e chiari, come attraversati da una fretta che rende il periodare più oscuro e impreciso per i non-iniziati), il nucleo della tesi resta valido e non può che rincuorare e inquietare allo stesso tempo.

Se è vero che la particolarità dalla filosofia italiana e i suoi punti di forza discendono dall'atavica frammentazione politica del nostro territorio, dal senso di non-appartenenza, cosa possiamo rispondere a chi vuole acuire, politicamente o meno, questo conflitto? Non si rischia di porgere il fianco alle pretese di autonomia a di federalismo?

E ancora: è possibile fondare l'unità, filosofica e non, di un paese proprio sul senso di non appartenenza allo stesso? [Spero di avere giustificato adesso la facile citazione iniziale di Gaber.]

Per quanto riguarda la prima osservazione, va detto che Esposito parla sempre di territorio, mai di nazione. Il pensiero è del e nel territorio, ma si costituisce attraverso un incessante processo di rottura dei confini e rientro, di “oscillazione tra interno ed esterno” [pag. 16]. Nessun pericolo di campanilismo; anzi, piuttosto un ripensamento integrale del concetto di territorio e geografia. Il pensiero deve sempre uscire dai confini entro i quali è nato per crescere e per testare la sua validità: quanto di più lontano si possa immaginare dal becero isolazionismo di oggigiorno.

Alla seconda questione non so rispondere. É indubbio che il punto di forza della nostra filosofia consista in questa mancanza di unità, all'apertura al caos, al conflitto, a quanto, in sostanza, di più lontano si possa immaginare dalla stabilità hobbesiana degli Stati-nazione. Non lo so.

Forse, sembra suggerirci la lettura, non saremo mai un paese come gli altri. Forse questo sarà l'ultimo squallido capitolo di una storia sbagliata prima di una nuova rinascita. Ma è comunque bello pensare che, al di là di retoriche patriottiche improbabili e grandiosità epiche inesistenti, si sia finalmente inaugurata una riflessione filosofica sull'italianità profonda e, spero, feconda.

Scrive Cuoco che: 

(...) le epoche della grandezza politica di tutte le nazioni sono quelle stesse della loro grandezza filosofica. La prima forza è la mente; debole è sempre il braccio di colui che non ne ha, o crede di non averne.”

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