lunedì 4 luglio 2011

Intervista a Davide Reviati. Parte terza.


[Qui l'intervista completa a Davide Reviati]

Prova a parlare male della fabbrica: rischi i molari. Nonostante ti abbia regalato morti e veleni. Questo è un nodo narrativo molto stimolante. Sai che la fabbrica è potenzialmente un pericolo per te e per la tua famiglia, eppure continui a lavorarci e a difenderla strenuamente, perché allo stesso tempo ti sta dando la possibilità di vivere. In molte tavole del romanzo ho cercato di trasmettere questa terribile contraddizione. E forse la narrazione nasce proprio quando non hai una risposta e magari sei pieno di dubbi. Allora capisci che le cose sono molto più complesse di quello che sembrano e rendere viva questa complessità diventa una grande sfida.

La fabbrica ha dato da mangiare a molti. Ma punisce ingiustificatamente. Proprio come una madre. Alcuni hanno definito Morti di sonno un libro di denuncia. Ma non era questo il mio intento. Un libro di denuncia presenta una tesi chiara, un'accusa che devi sostenere. Il mio libro racconta invece le contraddizioni del vivere. Non ha una tesi pronta in tasca.

Morti di sonno, pag. 107


Volevo scrivere un libro anche ironico, divertente. Anche se volessi non riuscirei a condannare del tutto il Villaggio! All'inizio era un luogo paradisiaco per noi bambini: era come vivere in campagna. Come vedi vivo sulla mia pelle la contraddizione. Questo sentimento è durato almeno fino all'età della ragione; poi si cominciò a sforare in città e a sentire i problemi dell'integrazione.

[Il nido diviene trappola.]

Io sono nato qui, anche se i miei sono originari di Parma. Venivano da fuori, come tanti del quartiere, e per alcuni l’integrazione con la città non è stata facile.
C'era un po' di resistenza nei confronti del Villaggio A.N.I.C e dei suoi abitanti. Nell'immaginario comune eravamo i drogati, i disperati. D’altro canto i ravennati avevano le loro ragioni, ma questo è un discorso lungo che ci porterebbe lontano.

[Come non pensare a Lido Adriano? Le sue parole sono un traslato della situazione di oggi: un ghetto simile a quello del Villaggio, forse meno ospitale per i suoi abitanti, isolato, problematico.]

Hai ragione. Per molti versi il Villaggio di ieri somiglia alla Lido Adriano di oggi. Per questo ne subisco il fascino sinistro, se vogliamo dire così. É un imprinting. Lido Adriano l'ho frequentata abbastanza, perché ci ho lavorato molti anni fa. Pulivo appartamenti e accompagnavo i turisti ai loro alloggi.

Per entrare dentro una storia, ho bisogno di far sedimentare le cose, magari farle anche andare a male per ripescarle poi ed accorgersi che sono un’altra cosa da quel che credevi e volevi. Ho bisogno di viverci insieme alla storia e ai personaggi, prima del momento di entrare nel tunnel del fare, del costruire. Sono quello che scrivo, non c'è nulla da fare.

Ma forse le cose non stanno neanche così: forse dovrei parlare della mia infinita pigrizia cronica, che non conosce tramonti.

[E Pessoa? Non dice forse che il poeta è il grande fingitore? Gli si illuminano gli occhi.]

Pessoa! Sento una profonda empatia con ciò che ha scritto Pessoa. E con quella sensibilità estrema che rende arduo pensare di poter davvero vivere.

[Sensibilità?]

Sì, certo. Faccio un esempio. Ho masticato fumetti fin da piccolo, come ti ho già detto. Poi, mentre studiavo in Accademia, ho scoperto la pittura.

Alcuni pittori hanno avuto un influenza molto grande sul mio modo di intendere questa attività di disegnare e di scrivere. Ad esempio Goya: lo adoro, uno dei più dissacranti e magistrali pittori che esistano. Ma anche solo andando sullo scontato: Picasso. É un grattacielo da scalare. Credo che sia il più grande disegnatore del secolo passato.”

E, come Pessoa, non ti insegna uno stile. Lui che ne ha passati così tanti: periodo blu, periodo rosa, arte africana, cubismo – che non sopporto, francamente. No, queste figure ti insegnano un'altra cosa: la libertà di essere sé stessi.

Libertà significa accettare ciò che si è, i propri errori. E capire che sono quelli a fare il tuo stile. Per questo in Morti di sonno ho disegnato cercando di raggiungere l’immediatezza degli schizzi. Come quelli che faccio al telefono, quando stacco la mente.

Ho cercato di limitare il controllo accademico sul disegno e le tentazioni del disegnatore perfettino, preciso e scrupoloso che vorrei essere.

Inoltre avevo fretta di finirlo. Pensavo di non riuscire a vederlo finito! La velocità ha fatto sì che entrassero nel libro goffaggini, imperfezioni e naivité. Mi consolo dicendomi che forse è passata più vita.
Truffaut (un regista che amo molto) dice una cosa del genere: 'I film respirano attraverso le proprie imperfezioni'. A questo punto mi guardo bene dal contraddirlo.



[Questa libertà spiega anche il grande successo che ha avuto l'opera all’estero. Nessuna sindrome da secondo lavoro?]

Dimenticare Tiananmen, che ho scritto subito dopo l'uscita del primo romanzo, mi è stato utile per distaccarmi più velocemente dal feticcio Morti di Sonno. Un’eredità difficile da scollarsi di dosso. Il rischio è di ripercorrere sempre lo stesso filone. Ho scongiurato il pericolo scegliendo di raccontare la strage dell'Ottantanove, che era il vero focus di Dimenticare Tiananmen.

Col nuovo romanzo a cui sto lavorando torno a raccontare una storia più vicina a me. Credo che il nodo sarà la ribellione alla transitorietà dell’esistenza. Avere la coscienza che ogni attimo che passa è unico... Se non lo sapessi, starei meglio. È come vivere un lutto continuo, non so se mi spiego, da elaborare ogni minuto.

[Certo, rispondo, capisco eccome. Ma esistono anche soluzioni a questa caducità. Cito Derrida: vivere significa lasciare tracce.]

Sì, è vero, è così. Il centro è qui.

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