domenica 3 luglio 2011

Intervista a Davide Reviati. Parte seconda.


[Qui l'intervista completa a Davide Reviati]

[Cerco di definire il romanzo, ma Davide mi anticipa a scanso di ogni equivoco.]

Morti di sonno non è la mia autobiografia. Non volevo parlare di me. Volevo parlare di altri attraverso di me, attraverso il mio sguardo. Posso citarti la risposta che dava Svevo quando i critici gli chiedevano chiarimenti sul presunto autobiografismo de La Coscienza di Zeno: Certo, è un autobiografia: ma non la mia.

Ho tentato di fare proprio questo. Il mio romanzo è certamente anche una biografia, poiché non potevo prescindere dalla mia esperienza, ma non volevo raccontare la mia vita. L'ho fatto più per una necessità narrativa che per scelta; come succede ad esempio verso la fine del romanzo, quando è necessario che entri in scena la voce narrante come personaggio vero e proprio.

Vedi, uno sguardo prosaico sulla realtà può essere pericoloso, così come la quotidianità stessa, in un certo senso, è molto pericolosa: tutto diventa normale, spiegabile, banale. In una parola: quotidiano. Siamo abituati, a guardare il mondo attraverso la quotidianità degli eventi. Ma credo che sia importante recuperare un altro tipo di sguardo, alimentato anche dalla memoria. Morti di sonno è proprio questo: il tentativo di recuperare uno sguardo mitico nel contemporaneo, nel prosaico, nel contingente. Uno sguardo poetico, in ultima analisi. É questa l'ambizione più grande.

[Penso a Mnemosyne: la musa dell'epica antica era proprio la memoria. La narrazione partiva dal ricordo e dal ricordo veniva arricchita.]

Scrivere questa storia è stato per me un modo di reagire allo sguardo vuoto e intimamente violento, anche se ammantato di buon senso. Credo sia questo modo di guardare le cose che ci sta trasformando tutti in morti di sonno. Consumatori intontiti dalle immagini e dalle chiacchiere, sempre preoccupati di guardare da un’altra parte. A pensarci il motore di questa reazione è stata la rabbia.

Prima di tutto rabbia verso me stesso, la mia inedia, la mia apatia, la mia viltà. E poi rabbia per gli altri sopravvissuti, che come me, sono costretti a convivere con la colpa di essere ancora qui. Rabbia verso il luogo, anche, che ci ha resi quelli che siamo, e i suoi padri da cui lo abbiamo ereditato. A volte questa rabbia ti schiaccia, ti chiude la gola anche se vorresti urlare. Ma urlare per dire cosa, poi? E ti accorgi che non hai le parole giuste e non sai più quali siano, le parole giuste. Forse è a questo punto che si comincia a scrivere e a raccontare.

[Ma se è vero che questo sguardo mitico è così importante per non farsi invadere dall'apatia tipica del mondo adulto, com'è possibile perderlo senza accorgersene? Davide mi guarda dall'alto dei suoi anni.]

É molto facile: basta lasciarsi andare agli istinti umani. Che non hanno necessariamente una ragione negativa, anzi a volte possiamo chiamarlo istinto di sopravvivenza. Un bisogno di appiattire tutto per ridurlo a una misura accessibile anche se priva di senso, e quando le cose perdono di senso anche le domande perdono senso e non resta più nulla ad assillarti. Basta sopravvivere ed aspettare.

[La memoria è ambivalente: non possiamo fare a meno di utilizzarla per raccontare le nostre storie, ma allo stesso tempo rischiamo di venirne schiacciati.]

È vero, l'uso della memoria comporta sempre una certa dose di rischio. Io ho scelto dalla memoria le scene che meglio rappresentavano un'atmosfera, il senso del vivere in quel luogo e cosi via. È stato un criterio simbolico e funzionale.

Non una sorta di principio d'economia, capiamoci bene: qui non si tratta di dire tutto col minore sforzo possibile. Al contrario: alcuni di quei frammenti rubati alla memoria mi hanno fatto faticare. Un esempio di questo criterio potrebbe essere la scena dei granchi imprigionati nel sacco: quando riescono ad uscire il loro istinto li porta verso l'acqua. Ma l'unica acqua che trovano nel Villaggio è quella del tombino. 

Morti di sonno, pag. 309
 

Sono particolarmente attento alle espressioni dei personaggi, alla loro gestualità, alla loro recitazione. Allo stesso tempo ho in testa un'idea di aderenza alla realtà molto alta. La caricatura, il disegno esplicitante per eccellenza, si distacca dalla realtà, ne è l'esatto opposto: appunto la carica. Non volevo cadere in questa scappatoia e ho cercato di alleggerire. In modo da restituire il più possibile atmosfere e suggestioni vive e non fantastiche. Per questo è stato difficile disegnare i volti.

E poi c’è il rischio di rimanere imprigionati in una sorta di obbligo di fedeltà alla memoria, che ti porta ad avere un approccio cronachistico nella narrazione. In verità, si tratta di tradire la memoria. Perciò ripeto spesso quando parlo di Morti di sonno: ho mentito. Molte cose non sono andate come ho raccontato. Toccava tradire la memoria per restituirne la verità. Un ben noto un paradosso della narrazione.

Mi immaginavo bambino a leggere il libro coi diretti interessati e fantasticavo riguardo le loro reazioni, facendo un traslato assurdo: ci saremmo accapigliati? Avrebbero sorriso? Chi lo sa. Ma a questo mi piaceva pensare, e non ad altro.

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