martedì 23 febbraio 2010

La Chiave Obliqua: L'Universo curvo di Elia Tazzari


L’universo curvo di Tazzari
ovvero, il simbolo e l’oggetto: l’obliquità come nuovo modo di lettura.
“(...) Ogni chiarezza è mascherata
Io parlo di protezione ma la metafora,
Il simbolo, forse non proteggono
Ma amplificano.”
Da Come trattare gli ospiti
Oggi saliremo, dal sangue verso il cosmo.”
Da La mente divisa di Rudolf Steiner

Il nuovo lavoro di Elia Tazzari, La Chiave Obliqua, è un libro estremamente difficile, oscuro, intricato.
Il suo complesso intercedere sembra rispecchiare la lunga e difficile gestazione concettuale che gli sta dietro; leggendolo s'intuisce il lavoro, si avverte il travaglio, si percepisce il sudore.

L’ossatura dei versi nasce dalle teorie e dai pensieri di autori tra i più complessi del panorama filosofico-letterario del Novecento. Tazzari si è fatto carico di un compito a prima vista formidabile, che spaventerebbe chiunque sappia almeno cosa vuol dire scrivere in versi: tradurre in poesia sistemi filosofici complessi e sconosciti al grande pubblico.

I numerosi rimandi alla cultura esoterica e spiritualista del Ventesimo secolo suoneranno al lettore non preparato incomprensibili, inusuali, forse perfino supponenti ed elitari.
Ed è proprio così che dovrebbero suonare.

Vero è che tutto quanto sia eccellente, è tanto difficile quanto raro”, chiosa il grande pensatore olandese alla fine del suo capolavoro, l’Etica (il riferimento a Spinoza non è del tutto inappropriato, come spiegherò tra poco).

Bisogna quindi armarsi di pazienza, rimboccarsi le maniche e affrontare versi apparentemente impenetrabili. Occorre per così dire ripercorrere il travagliato percorso dell’autore, in un unico processo di formazione che accomuna lettore e poeta.

Ed è proprio questo ciò che l’autore vuole da noi: un momento di concentrazione estrema, di profondo raccoglimento. Un tentativo di analisi e autoanalisi che dovrebbe sfociare, come il libro, a un'evoluzione spirituale: un momento di crescita e formazione non solo emotiva ma anche percettiva.
Andiamo con ordine, quindi, e cerchiamo di chiarire alcuni concetti guida per orientarci all’interno del sistema simbolico de La Chiave Obliqua.
Il nucleo di fondazione di questi versi, a mio parere, si potrebbe proprio ravvisare nella riflessione sul passaggio tra esoterismo ed essoterismo, non importa in quale direzione.

Si può considerare la terza opera di Tazzari una riflessione eccezionalmente acuta sul significato dei simboli, e del loro rapporto con la realtà oggettuale che ci circonda.

Il suo sforzo e il suo merito è stato quello di analizzare ad un livello profondo le cause e le conseguenze di una lettura simbolica del mondo.

Come concepire il simbolo? Come pensare compiutamente ciò cui inerisce? Di che natura è il legame con l’oggetto simbolizzato? Come spiegare razionalmente il profondo intreccio che si viene a creare tra mondo e rappresentazione?
Queste le domande fondanti che suscita la lettura di La Chiave Obliqua.

Fin dai primi versi si viene scagliati in un cosmo fatto di rimandi e simboli, inizialmente incomprensibili.
La vista del lettore ridiviene la vista del bambino che guarda il mondo per la prima volta. La selva di metafore e perifrasi, così come il mistero di oggetti senza nome per il neonato, costringe lo sguardo a fermarsi su di essi, e a non dare nulla per scontato.

L’adulto, sinonimo in questo caso di cinismo e disillusione e metafora dell’uomo contemporaneo, non si accorge più della natura degli oggetti che lo circondano. I loro nomi e la loro funzione ne hanno oscurato la primitiva forza simbolica, quel significato nascosto capace di creare un legame non tanto fisico, quanto spirituale con l’osservatore.

Quello che Tazzari riesce a trasmettere al lettore è proprio questa atavica potenza del simbolo, ormai perduta, fantasia profondamente e tipicamente europea, risalente alla più remota antichità (come non ricordare il diverbio sugli universali, o ancor prima lo status trascendente ed intelligibile delle idee platoniche e poi ancora su, su fino a perdersi nei tempi remoti del primo segno colorato sulle pareti delle caverne, per propiziarsi gli dei in tempo di caccia); fantasia rintracciabile senz’altro anche nella modernità, in autori quali Yeats, Pessoa, Steiner, Onofri, Eliot, punti di riferimento imprescindibili per comprendere appieno questi versi.

Su questo continuo scambio tra essoterico ed esoterico, l’autore innesta la sua riflessione.
Uno dei passaggi più alti dell’intera raccolta, Come trattare gli ospiti, testo inedito e raro per tono e profondità, è una chiave (il bisticcio col titolo è voluto!) che può aiutare non poco ad orientarsi.

Non a caso è collocato quasi al centro esatto del lavoro, posto riservato ad un’altra composizione tra le più alte ed evocative: La mente divisa di Rudolf Steiner, nella quale il riferimento al fondatore dell’antroposofia è esplicito fin dal titolo.

Detto per inciso, anche la perfetta simmetria del lavoro (tripartito in tre sezioni raffigurate nel simbolo della chiave) è essa stessa utilissima per comprendere al meglio il significato dell’intera raccolta.
Partiamo quindi da questa composizione, cuore dell’intero corpus, per approfondire l’aspetto teorico dell’opera e per intuirne la portata filosofica.

La poesia è interamente giocata su una dicotomia, che non è solo quella della mente del pensatore austriaco; la divisione è infinitamente più profonda, abbraccia anzi l’intera realtà.

La divisione dell’essere è un tema classico per la filosofia teoretica, che da Platone accompagna da millenni lo sviluppo della società Occidentale, ed è ormai entrata a far parte del DNA dell’europeo: da una parte il mondo inorganico, dall’altra il vivente.

Ancora oggi, tra l’altro, non si capisce che cosa differenzi dal punto di vista biologico le due; ma c’è un salto qualitativo che non rende possibile la riduzione della seconda sfera alla prima (si pensi ad esempio al pensiero di Hartmann, e ai suoi strati dell’essere interconnessi seppur del tutto autonomi).

Steiner ipotizzò, come riportato nelle due citazioni che aprono e chiudono la raccolta, una forza extra-terrestre, immateriale e trascendente che abbraccia e comprende l’intero cosmo, ripercorribile a ritroso dal sasso e dalla goccia, da “zolle celesti” che si fanno mondo (Padre Sogol redime gli alpinisti), oppure come “un’anima segreta che decresce verso il corpo” (La risalita dei salmoni) per arrivare “all’apice turrito unificante Cosmo ed Io” (Il Corpo Segreto).

Questa divisione è presente anche all’interno dell’uomo, come separazione tra i due emisferi cerebrali; il sinistro, sede del pensiero logico-matematico, che tende a schematizzare e ridurre la realtà sotto categorie ordinate e razionali, e l’emisfero destro, legato inscindibilmente alla sensazione, all’esperire sensoriale, centro emotivo del soggetto.

Interessante notare come questa separazione sia presente fin dalla primissima poesia della raccolta, il Dialogo dell’anello, (che richiama, almeno nelle prima battute, il periodare prosastico della raccolta precedente, Lato B) separazione, dicevo, incarnata da due voci antitetiche che esprimono due punti di vista contrastanti e apparentemente irriducibili.

Ed ecco comparire fin dall’inizio anche il secondo grande tema della raccolta, che si potrebbe chiamare il tema dell’obliquità.

Verso dopo verso, parole quali "ricurvo", "curva", "piegare", "ciclo", "cerchio" si rincorrono come un mantra, acquistando un connotato (e sta proprio qui la magia) ogni volta più carico di rimandi, progressivamente imbevuto di suggestioni.

Che cosa significa poesia obliqua, ricurva? Quali sono gli estremi che stiamo cercando di ricongiungere così disperatamente? Che cosa vogliamo rendere uno?
Forse è proprio il simbolo che permette questo tipo di riflessione.

Se pensiamo bene alla sua funzione, allo stesso tempo “cassa di risonanza” e “schermo” dell’oggetto, quello che il simbolo opera dal punto di vista del lettore è una deviazione dal significato letterale.
È il simbolo stesso ad essere obliquo, a costringere ad una lettura obliqua del testo.

Il significato letterale, quale che sia il testo, facilita e si accontenta di una lettura rettilinea, per così dire, facilitata ma anche terribilmente semplificata (forse al punto da divenire, in certi casi, totalmente inutile e sterile).

Il significato simbolico richiede dunque una lettura lenta, profonda, disposta ad essere deviata o “incurvata”.
È grazie al simbolo che è possibile riunire in un unico sistema circolare le due visioni antitetiche di cui si è accennato sopra.

Il simbolo da filo (semplice rimando mentale astratto) si è fatto fune, possibile via di scampo o ancora di salvezza in un sistema che rischiava altrimenti una frattura non più ricomponibile.
“Fune del verso/Sogno di un testo composto”, come profetizza Tazzari in Enigma di Venere e della fune.

Una volta ricongiunti due mondi che si pensavano antipodici, ma in realtà intimamente connessi, possiamo forse pensare di poter redimere la nostra finitudine considerandola parte di un ordine superiore, di una forza extra-terrestre da ripercorrere al contrario, un po’ come fanno i salmoni per tornare al luogo della loro origine, del tutto inconsapevolmente.

“Mi guidino i venti del mondo alla comprensione dell’Io-Cosmo”, ecco l’augurio del poeta a se stesso e al lettore, formulato in Il tuo volto nei miei occhi, verso la fine della raccolta, a curvatura ormai compiuta.

E anche se è possibile che molti non riescano a percorrere fino in fondo il percorso inaugurato da Elia (si veda a questo proposito Verso la rosa, prima poesia dell’ultima parte), ciò che importa è che almeno sia stato delineato e pensato.

Così almeno sembra volere intendere la poesia che chiude la raccolta, La visione di Brâncuşi; dopo aver cercato, come sembra dirci, di “tradurre l’astratto in concreto”, di piegare la colonna infinita in un eterno cerchio di nietzschiana memoria, significativamente termina con la parola “ricongiunta”.

Tuttavia, è forse in La valle delle lanterne che Tazzari tocca l’apice espressivo. Con due strofe simmetriche e perfettamente equilibrate, che vale la pena riportare integralmente, l’autore riesce a comunicare questa comunione profonda con un’immagine semplice e violentemente espressionista.

Versi che stupiscono per carica evocativa e nitore; è raro che un autore così giovane padroneggi così bene lessico e contenuto; versi a cui non si deve aggiungere altro, per non rischiare di rovinarli col tocco del commento; versi che echeggiano potenti nella memoria, assicurati a questo mondo, affrancati per ora dalla dimensione di “muti simulacri del tempo” (L’eredità del poeta).
Lumi magri come i fiumi della carne
Tremo ancora al pensiero dei nostri tentativi:
Sangue e corpo, sangue che fa carne
Sangue vuol dire mortale
E tutti sanguiniamo.
Fiumi ora scissi dall’umano
Alzano i flussi verso mondi che sono preclusi:
Sangue e spirito, sangue che fa cosmo
Sangue vuol dire immortale
E tutti sanguiniamo.

giovedì 18 febbraio 2010

La creazione artistica come processo cognitivo. Una proposta.

Dedico questo intervento a Orso,
per la pazienza e per le chiacchiere





L’intento di questo gruppo di interventi (nella mia mente tre) è quello di analizzare dal punto di vista cognitivo le ragioni che innescano la produzione artistica nell’uomo.

La convinzione di fondo è che debbano esistere delle pulsioni (in senso diverso da quello freudiano: si tratta qui d’istanze cognitive solo parzialmente inconsce, spesso mascherate sotto altre, ben più nobili spoglie) che spingono l’uomo a produrre “arte”. La ricerca, e conseguentemente l’individuazione di tali ragioni sta alla base degli interventi.

Ciò che si vuole confutare è la pretesa di molti critici e spesso degli stessi artisti di assegnare al loro lavoro una genesi semidivina: l’artista non è il portavoce di nessuno se non di se stesso.
L’illuminazione è pura finzione, niente di più.

Si tratta, quasi pleonastico dirlo, di ragioni che non rientrano nell’ottica dell’utilità, almeno che essa non venga intesa come il piacere dello spettatore; ma anche in questo caso permangono molti dubbi, corroborati dalla conoscenza che abbiamo delle cause del processo artistico in diversi autori.
Spesso, infatti, si associa alla creazione artistica una volontà di accettazione, o meglio, un bisogno di accettazione, del tutto ingiustificato ed ingiustificabile alla luce delle motivazioni personali che hanno mosso in principio l’autore.
Non si deve in nessun modo ridurre il lavoro artistico a palliativo di un’esperienza mancata dell’autore.

L’artista, come tutti, vive; egli è immerso in una realtà ben determinata i cui influssi sono rintracciabili nella sua opera. Non esiste poesia che non descriva un attimo della vita del suo autore, così come non c’è quadro o melodia che non si possa in un qualche modo associare ad un’esperienza concreta del compositore.

L’opera d’arte distaccata dalla vita è un’utopia. Per questo la biografia di un artista è così importante per capirne fino in fondo l’opera. Troppo spesso purtroppo si pensa che conoscere i sogni, le paure, i desideri, le ossessioni, gli amori di un autore non sia, in fondo, nient’altro che una specie di chiacchiericcio inconsistente ai fini di una ricerca più approfondita della sua opera.

Al contrario, sono convinto che non ci sia nulla di più utile della biografia per comprendere davvero le idee e il lavoro di un artista, le sue intenzioni e i suoi giudizi, gli ideali e le fobie.

Certamente il discorso non può essere estremizzato in un riduzionismo dell’opera in vita o viceversa. È vero che l’opera viene influenzata necessariamente dalla vita, ma non è del tutto riconducibile o riducibile ad essa.

La storia ci indica gli effetti disastrosi che l’assimilazione dell’arte in vita ha prodotto nel lavoro di molti; vivere la propria opera porta spesso alla dissoluzione di entrambe o, nella peggiore delle ipotesi, alla loro completa distruzione. Il mito romantico di quella che si potrebbe chiamare “coerenza assoluta”, vivo ancora oggi in svariati ambiti di produzione artistica (come ad esempio nel campo della musica rock), è sotto gli occhi di tutti, ed ha falcidiato intere generazioni, sottoforma di guerra, droga o isolamento, a seconda dei casi.

Concesso tutto questo, il piano di ricerca sarà in definitiva quello della quotidianità dell’esperienza artistica.
Si devono cercare motivazioni sì profonde e legate all’interiorità personale, ma non al punto da dover ritenerle “immateriali” o impraticabili per una ricerca razionale.

Bisognerà quindi necessariamente astrarre dalla congerie di irriducibili esperienze soggettive legate alla vita di tale o tal’altro autore delle motivazioni che si possano ritenere, con tutta probabilità, generali ed oggettive.

Non bisogna ad ogni modo avere la presunzione di assolutizzarle e ritenerle per questo valide in ogni ambito. L’astrazione implica sempre una riduzione di elasticità e la necessaria schematizzazione di una realtà che non può essere schematizzata compiutamente: la realtà della pensiero.

Ciò che davvero conta è non cadere in un cinismo assoluto da una parte, secondo il quale l’artista fa un lavoro come tanti, per fini materiali (si veda un intervento precedente); ma neppure sbrigare la faccenda tirando in causa una sorta di genio mistico che il destino ha dato in sorte a qualcuno piuttosto che ad altri.

Credo tuttavia che sia possibile almeno provare a capire le pulsioni che spingono l’artista all’opera, analizzando a fondo diversi esempi di vita. Pulsioni concrete, esistenti, necessarie: non afflati divini, ma neppure passioni cieche ed egoiste.

Ci sono infatti dinamiche sociali e mentali che si ripetono con schemi quasi paralleli in diversi momenti del processo della storia artistica.

Un approccio comparativo è possibile; questo è già sintomo di una profonda somiglianza della dialettica artistica in autori apparentemente del tutto autonomi e distanti, nel tempo e nello spazio.

In conclusione, mi limiterò a precisare i tre “momenti cognitivi” a mio avviso indispensabili per potere parlare di un’effettiva creazione artistica: il “principio del discrimine”, in un primo momento, come motore o principio della ricerca artistica; in seguito, la necessità di un’ "ἐποχή conoscitiva” o “dubbio positivo” come mezzo della creazione, imprescindibile per l’atto artistico; e infine il “desiderio del ricordo” come ultima tappa, meta dell’intero percorso creativo, e compimento della creazione.

martedì 16 febbraio 2010

Le mele della notte

La canzone di Aengus l’errante

Andai in un bosco di noccioli
Perché un fuoco mi bruciava nella testa,
E tagliai e pelai una verga di nocciolo,
Ed attaccai una bacca in fondo a un filo;
E quando le bianche falene si levarono sull’ali
E vacillando vennero come falene le stelle,
Gettai la bacca in un ruscello
E pescai una piccola trota d’argento.

Quando l’ebbi posata sul suolo
Soffiai sul fuoco per ravvivarlo,
Ma qualcosa sul suolo si agitò,
E qualcuno mi chiamò per nome: la trota
S’era fatta una splendida fanciulla
Con fiori di melo fra i capelli,
Che mi chiamò per nome e corse via
E scomparve per l’aria scintillante.

Sebbene errando mi sia fatto vecchio,
Errando per valli e colline,
Scoprirò dove mai se n’è fuggita,
E bacerò le sue labbra, le prenderò le mani;
Camminerò fra l’erbe alte dai molti colori;
E coglierò, finché i tempi non siano finiti,
Le mele d’argento della luna,
Le mele d’oro del sole.


La bellissima poesia di Yeats sopra riportata riprende il tema classico della metamorfosi che, fin dai tempi più remoti del mito greco, non ha mai cessato di affascinare il folklore e l’arte di moltissimi popoli europei. Yeats, poeta legato, soprattutto in gioventù, ai temi più tradizionali della cultura irlandese,( cultura che, va detto, lo scrittore si preoccuperà di diffondere largamente) rilegge in chiave misterica e simbolica una trasfigurazione magica, che avviene in un’epoca sospesa nel tempo ma che possiede uno spazio ben definito. Il luogo di svolgimento della lirica è un bosco irlandese, un bosco in cui il viandante Aengus (figura mitologica che richiama il vecchio Ulisse) capita per sedare un fuoco che gli “bruciava nella testa”.
Da questa premessa si dipana il lungo filo di mistero che sembra avvolgere ogni parola della poesia: perché il viandante Aengus, per placare questo enigmatico fuoco cerebrale (forse artistico, forse amoroso) si dirige nel bosco? La risposta non verrà fornita. Tutto è concatenato da una legge che sovrasta il personaggio e di cui il poeta si fa semplice intermediario: la risposta è celata da una volontà superiore che sovrintende agli atti del mondo.
L’episodio della pesca viene poi descritto con minuziosa precisione: ogni atto è evidenziato quasi a voler rimarcare l’evidente analogia fra i preparativi della pesca e i gesti che accompagnano un rituale religioso. Aengus taglia un ramo di nocciolo, lo pela, coglie una bacca, la lega ad un filo, annoda il filo al bastone e getta la bacca nella corrente; un’intera strofa viene spesa per descrivere la costruzione di una canna da pesca rudimentale e la scelta dell’esca. Gli eventi precipiteranno velocemente nella seconda strofa mentre nella terza si verrà addirittura avvolti dall’alone vago e profetico delle parole del vagabondo; il poeta intende quindi rimarcare con maggiore insistenza l’importanza fondamentale del costruirsi stesso dell’attrezzo che darà poi un senso alla vita intera di Aengus. Dalla canna da pesca, alla trota, passando per la trasfigurazione magica: ecco le scintille.
La magia che si manifesta nella seconda strofa getta però nuova luce sul motivo di tanta minuta volontà di descrivere: la trota si è tramutata in una ragazza ma la magia non è forse avvenuta per caso. Forse il ramo di nocciolo era incantato, o forse la bacca. Forse il filo era magico (bellissimo il senso di indefinito che emanano gli articoli indeterminativi) oppure ad essere magiche erano le acque. Oppure il pesce. Oppure ciò che ha reso possibile il tutto è stato l’intervento delle falene simili a stelle e il mescolarsi stesso degli astri a questi esseri della notte. Non sapremo mai quale fra questi oggetti sia stato il tramite, il catalizzatore magico che ha scatenato tutte le cose venute in seguito.
A mio avviso, il mistero evidente della lirica non consiste quindi nella domanda riguardante il destino di Aengus e della misteriosa fanciulla, quanto nella domanda che si cela nel rituale descritto nella prima strofa: perché il poeta ci dice tutto questo? Perché spendere tante parole per un gesto così elementare? È questo che Yeats vuole dirci, strizzandoci l’occhio per tutta la poesia. Certo, il finale fiabesco e astratto è necessario in una lirica di questo tipo ma è qui che l’arte si inserisce creando un enigma che, di verso in verso, riconduce il lettore al vero richiamo esoterico del testo.
Il segreto giace laddove si credeva che tutto fosse spiegato e banale.

venerdì 5 febbraio 2010

Blob e il détournement: rubare per pensare. Un elogio.




“Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso le frasi di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta.”


Così il frammento 207 della Società dello Spettacolo, 1967. L’oracolo Debord ha parlato.
Cosa c’entra il più oscuro pensatore francese del Ventesimo secolo con una trasmissione televisiva italiana, altrettanto oscura e fraintesa?
Molto più di quanto potevo immaginare.
Blob è senza dubbio il più riuscito programma della televisione italiana, e molto probabilmente uno degli esperimenti più interessanti da quanto la televisione è stata inventata.
L’idea di base, per quanto semplice, rivela la sua profondità.

La trasmissione consiste essenzialmente in un “blob” appunto, come il mostro del b-movie di Yeaworth del 1957, un ammasso informe di materia aliena che “consumes everything in its path as it grows and grows”.

Un minestrone d’immagini, un wild bunch senza soluzione di continuità di tutte le porcherie che ci propinano le televisioni, commerciali o meno, del nostro paese.

L’unico commento consiste in un titolo, una piccola stringa di testo in alto a sinistra, spesso un gioco di parole (ad esempio, e mi limito a citare la puntata di questa sera, 2 febbraio 2010, “sfiatati”) un pun shakespeariano minimale, un ammiccamento fugace allo spettatore, “chi vuol capire capisca”, che fa da guida silente alla congerie di suoni, parole e discorsi in evoluzione sullo schermo.

Tutto il resto (proprio tutto), dall’interpretazione del titolo, alle citazioni interne alla puntata, alla ricostruzione semiotica del montaggio è lasciato all’intelligenza dello spettatore.

Quest’approccio giocoso, quasi di sfida intellettuale alla Nabokov, è sicuramente uno dei motivi della sua poca popolarità. “Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt”, e per questo faticose: nessuno ha voglia di sforzarsi nella sonnacchiosa fase post-digestiva o neppure ne ha il tempo nella frenetica attesa prima di cena.

D’altra parte, credo sia anche una delle cause principali del suo status di programma di culto tra molti altri: la complicità che si crea tra programma e spettatore, il rimando culturale, il gioco della citazione, l’irresistibile effetto satirico del montaggio inaspettato sono tutti elementi che gratificano chi ha la voglia di seguire le immagini fino alla fine.

Non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di un programma d’intrattenimento, e come tale deve piacere. Confesso che non c’è altro programma televisivo che mi faccia ridere più di Blob. Un piccolo miracolo, se ci si pensa bene: fare satira senza commenti sembrerebbe un’impresa impossibile.
Luttazzi sostiene che la satira altro non è altro che “storia + punti di vista”.
In Blob manca perfino quello; l’unica risorsa è quella dell’allusione sommata al montaggio. Ma sta proprio lì la sua efficacia. Blob non si sporca le mani ma, per così dire, lascia fare tutto agli altri.

Questa “pigrizia costruttiva” consiste nell’ottenere che l’accostamento di più immagini crei ilarità, imbarazzo, contraddizione. E ci riesce eccome. Basti pensare che la puntata monografica dedicata al nostro attuale presidente del consiglio stava per essere censurata. Si faccia bene attenzione: censurare Blob è censurare la realtà.

Perché? Perché Blob è memoria rielaborata.

In ciò consiste il fulcro della sua genialità. Blob diventa “pericoloso” perché riesce a catturare una porzione del reale, ad incorporarla, a digerirla e a risputarla in un altro contesto.

Sto parlando del mostro o del programma? Di entrambi.

La vera conquista di Blob è stata la perdita del contesto come mezzo per ricostituire una semantica. Gli stralci di programmi, strappati al flusso coerente e ordinato del palinsesto quotidiano, rivelano significati nuovi, inediti, inaspettati, imprevisti.

Ma, attenzione, non per questo falsi. Anzi, più veri di prima.

Come il Cosimo rampante di Calvino, Blob esercita l’arte del distacco.
Isola precisi frammenti dal loro contesto, lascia decantare il loro senso acquisito (e perciò stesso forzato, quindi ideologico (spiegherò tutto, aspettate ancora un po’)) e ne fa emergere componenti in precedenza del tutto invisibili allo spettatore, catturato com’era da ciò che potremmo definire “movimento del senso” o “flusso contestuale”.

Il cambiamento della semantica associato al montaggio è talmente efficace da risultare quasi violento. Perché è proprio una violenza quella che opera Blob, una violenza in positivo del significato, che obbliga a ricostruire il senso di un frammento isolato dal contesto.

Si appropria di una parte di verità, la distorce, la immerge in altri ambiti, la tinge di doppi sensi; in una parola la ricrea.

Non c’è altro programma che mi diverte di più, ho detto; ma non ce n’è nessun altro che più mi spaventa, mi scandalizza, mi sconcerta e mi ammutolisce.

Un attimo prima rido per l’accostamento di Rutelli e Clark Gable di Via col Vento e l’attimo successivo rimango raggelato per un’immagine documentata delle rivolte irachene sotto il jingle di Buona Domenica – e questo è solo un esempio: in ogni puntata (meno di 20 minuti, di solito) ci sono decine di momenti simili.

Rubando immagini e forzando il significato, Blob costringe la mente dello spettatore a trovare una spiegazione per quello che sta vedendo.

(Fermatevi 10 minuti e guardatevi il link qui sopra. Il resto può aspettare.)

Per questo motivo, Blob può essere considerato il più riuscito (e, per quanto ne so, l’unico) programma televisivo compiutamente situazionista della storia della televisione.


Debord, avviandosi alla fine del suo magnum opus, nelle due parti conclusive della “Società dello Spettacolo” (La negazione e il consumo della cultura e L’ideologia materializzata), tira le somme di quanto detto fino a quel momento e cerca di districarsi verso una via d’uscita dal sistema delineato e preconizzato nei sette capitoli precedenti.

Lo spettacolo come negazione totale della realtà effettiva ed esistente, come il contrario del movimento storico, come guardiano del sogno dello spettatore, come capitale accumulato fino a divenire immagine, come immobilità sociale e culturale, come frammentazione e dispersione delle forze rivoluzionarie, come separazione compiuta tra vita reale e vita spettacolare (il sogno divenuto realtà di qualsivoglia società teocratica d’ogni tempo e credo): con questa mostruosa “sovrastruttura strutturata” Debord deve in un qualche modo fare i conti.

E se la sua fiducia nella rivoluzione popolare post-capitalistica può oggi farci storcere il naso (“Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica” #203), forse più per la sua ingenuità che per i soliti fantasmi degli anni di piombo, non possiamo invece che rimanere sbigottiti da un’altra proposta, più pacata ma infinitamente più suggestiva.

“Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato al suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca in quanto riferimento globale come dall’opzione precisa che essa era all’interno di questo riferimento, esattamente conosciuto o misconosciuto.
Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere alcuna garanzia in se stessa e definitivamente (# 208).”

Il détournement è l’appropriarsi di un’idea divenuta ideologia per contestarla e di conseguenza renderla viva, ancora una volta.

L’appropriazione indebita (détournement) restituisce alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state imbalsamate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne (# 206) .

Debord tocca un nervo scoperto della cultura occidentale: la sedimentazione della conoscenza produce ideologia, quindi ignoranza. Occorre esercitare un pensiero fluido, aperto, che accolga provocazioni, che capisca e interiorizzi le posizioni dell’avversario, che comprenda a un livello profondo la dialettica della cultura.

Debord aveva capito che per capire bisogna necessariamente negare e distruggere. Non c’è movimento nella cultura che non passi dalla negazione del sapere stabilito da parte di un nuovo sapere eretico, che a sua volta è destinato a passare nuovamente in stabilito.

La produzione culturale anticipa necessariamente l’accettazione sociale; precorrendola nega e distrugge.

“Solo la negazione reale della cultura ne conserva il senso (# 210).”

Il significato profondo del détournement è quello di sovvertire il concetto dato per assodato dalla cultura ufficiale al fine di produrre nuova conoscenza e scavalcare il potere ideologico dello spettacolo, “l’ideologia per eccellenza, (...) negazione della vita reale (#215)”.

Lo spettacolo addormenta in quanto non mette in discussione il concetto. Lo spettatore accetta passivamente una realtà rovesciata, la interiorizza: diventa straniero alla sua stessa vita. Il pensiero, dato per scontato, si sedimenta e cade nell’oblio della sicurezza.

La noia è controrivoluzionaria”, tuonava una famosa massima situazionista.

L’arte situazionista (non solo in campo letterario, si pensi ai lavori del CO.Br.A di Asger Jorn), basata sul concetto di appropriazione indebita di pensiero, accetta la dialettica, il movimento della cultura.
Una delle frasi più clamorose di Debord, è proprio un esempio perfetto di détournement: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine (#34).”

In questo caso il malcapitato è Marx: ma il “furto” non stravolge il significato delle sue teorie: le osserva da un altro punto di vista, approfondisce le sue critiche, ne attualizza il pensiero.

Il détournement doveva essere uno strumento nelle mani della teoria critica situazionista, alle soglie del Maggio francese. L’intento era quello di rovesciare il sistema spettacolare.

Oggi dobbiamo limitarci (in fondo lo stesso Debord, nei Commentari scritti nel ’89, parla di una sconfitta del situazionismo) e ridefinire il suo esercizio come pratica di emancipazione.

Il pensiero copyleft, ad esempio, accetta la sfida di Debord e declina la sua applicazione in ambito giuridico - economico: coll’avvento della produzione di beni immateriali, quali software e applicazioni Web, è possibile creare un solo oggetto di consumo per migliaia e migliaia di utenti.
Anche il movimento Open Source abbraccia la filosofia del “some rights reserved”.

Blob invece lo esercita in ambito artistico. Si appropria d’immagini, le ricontestualizza, attacca il pensiero unico.

Cita al contrario immagini di attualità, le accosta a documenti di repertorio; le accompagna con suoni asimmetrici, fuori fase, come fossero nastri di una composizione minimalista di Reich.


Con Blob la televisione cessa di essere quell’insopportabile mezzo di comunicazione ex-catedra che infastidiva e tanto spaventava Pasolini, e diventa un nuovo esercizio di critica e pensiero.